L’Ocse e i Paesi latinoamericani

L’ultima arrivato è la Repubblica del Costa Rica, quarto Paese della regione dopo che in aprile è stata ammessa la Colombia e in precedenza Messico e Cile. Ma quali sono i criteri per ammettere nell'Ocse alcuni e non altri?
Carlos Alvarado Quesada President of the Republic Costa Rica at OECD. Angel Gurria Secretary-General OECD OECD Headquarters, Paris, France Photo: OECD/Victor Tonelli

Conosciuto come il Club dei Paesi ricchi, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), riunisce 38 Paesi attorno allo studio e la ricerca di buone pratiche politiche ed economiche finalizzate allo sviluppo.

Vi fanno parte le maggiori potenze industriali del mondo e lo sforzo di ampliare questo spazio multilaterale sta consentendo di includere anche Paesi in via di sviluppo, come la Turchia oppure come i quattro Stati latinoamericani che ne fanno parte: Messico, Cile, da aprile scorso Colombia e da pochi questi Costa Rica.

L’organizzazione prese le mosse dalla gestione, a suo tempo, del Piano Marshall e dalla Conferenza dei Sedici, poi convertita nella Organizzazione europea per la cooperazione economica fino al 1960, quando si trasformò nell’Ocse. L’ultimo arrivato è dunque il piccolo Paese centroamericano, dagli standard di qualità di vita completamente al di fuori ed al di sopra dei livelli regionali grazie a una stabilità politica proverbiale e ad alla qualità della sua democrazia.

Nonostante le bufere politiche dei vicini Paesi ed i conflitti interni armati, dal 1948 il Costa Rica ha scelto di non avere un esercito. La sua rivoluzione digitale nelle scuole è cominciata nella metà degli anni Ottanta, quando l’uso del pc è stato introdotto. Il resto degli indici di qualità di vita, non ultimo quello della disuguaglianza, consentono ottimismo a chi li prenda in esame.

Certo, desta non poco stupore la presenza in questo club semi esclusivo della Turchia, il cui governo è alquanto lontano dalle pratiche democratiche, con un presidente, Erdogan, abituato all’uso del ricatto per ottenere aiuti dall’Unione europea onde evitare l’arrivo di siriani in continente, e con una pesante responsabilità nella guerra in Siria, dove nella regione abitata dai curdi Ankara pretendere di decidere come a casa sua, cioè con la violenza.

Ma allo stesso modo desta stupore anche l’ingresso all’Ocse della Colombia, in cui siamo ancora in presenza di conflitti armati che il governo non ha mostrato intenzioni reali di neutralizzare, mentre continua la mattanza di leader della società civile, giornalisti e sindacalisti a mano di tollerate organizzazioni paramilitari e criminali. Appena una settimana fa, ancora una volta la cupola dell’Esercito era rimasta coinvolta nella scoperta di una strategia di spionaggio di decine di figure pubbliche.

E se in Costa Rica le sperequazioni sociali sono attutite da politiche di ridistribuzione, i livelli di diseguaglianza in Colombia sono a livello stratosferico: nelle zone rurali, il coefficiente Gini schizza a 0,9. Per intenderci, 0 è il massimo dell’uguaglianza ed 1 è il massimo della disuguaglianza, cioè la ricchezza è in mano ad una sola persona. Non può che destare stupore allora detta presenza, ed anche quella del Messico, ormai sconvolto da livelli di violenza che dal 2006 sono in continua crescita, con circa 50.000 desaparecidos ed un livello di impunità che compre il 90% degli omicidi commessi.

Ci sarebbe da chiedersi, allora, come mai non è presente nell’organizzazione l’Uruguay, che ha con tutta probabilità, a livello regionale possiede i migliori indici anche rispetto al quarto membro latinoamericano, il Cile, sotto praticamente tutti i punti di vista. La principale opposizione viene da Washington che ha interesse a vedere presenti nel club i citati Paesi e non gli uruguayani fino a marzo scorso governati da quindici anni in qua dal centrosinistra.

L’Ocse non dà segni di cieca adesione all’ormai tramontato Washington consensus, ed anzi i suoi programmi di sviluppo hanno una forte componente in sintonia con spinte più progressiste che conservatrici. Ma certamente questi tipi di condizionamenti politici, che – sia chiaro – non sono gli unici, non aiutano un sempre più necessario multilateralismo che oggi ha bisogno di crescere sotto l’ala del bene di tutti, anche sul piano globale, e non in base a interessi parziali.

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