Lo dice la sharia?

I talebani continuano a citare la sharia come fonte di un indiscutibile diritto islamico. Così nei confronti delle donne, considerate genere inferiore. Ma lo dice la sharia o lo dicono gli islamisti? Cos’è la sharia e chi la interpreta?
(AP Photo/Shiwa Kiyanosh)

Nelle ultime settimane ad Herat, Kabul, Kandahar e in altre città dell’Afghanistan, piccoli gruppi di donne coraggiose hanno sfidato il nuovo governo talebano manifestando pacificamente per strada: «Non esiste governo che sopravviva senza il sostegno delle donne», recitava uno dei cartelli esibiti in arabo e inglese. Tristemente prevedibile la reazione dei miliziani, che hanno attaccato il corteo con bastoni e gas urticanti. Un commento di un ignoto cittadino afghano postato su Twitter mi ha colpito: «Avevamo detto alle donne di rimanere a casa, in attesa di creare degli spazi e dei lavori idonei, separati dagli uomini. Non potete lavorare con noi. Lo dice la sharia».

Lo dice la sharia? E che cos’è questa sharia tanto invocata non solo dai talebani ma da tutti i jihadisti? Perfino i miliziani dell’Isis-K si appellano alla sharia, quelli che hanno scatenato la strage all’aeroporto di Kabul il 26 agosto per affermare la loro volontà di ri-espandersi. Temo che non poche persone, in Occidente, immaginino la sharia come qualcosa di analogo alla costituzione o al diritto civile, qualcosa di ben definito, insomma. Una specie di codice di diritto islamico. Non è così.

La sharia è in sostanza un insieme di usi, pratiche, regole religiose e morali dedotte (e sottolineo dedotte) da due fonti: il Corano e gli Hadith. Vale a dire il testo sacro dell’Islam e la raccolta fatta nei secoli di atti e comportamenti del profeta Muhammad e dei suoi primi compagni. La sharia non è quindi un testo scritto e codificato.

Non essendo gli Hadith ma neppure il Corano in prima istanza testi giuridici (si considera che forse 190 sure su 6236 totali abbiano contenuti normativi), le norme del diritto da applicare alla grande maggioranza delle situazioni vanno dedotte. E chi può fare questa operazione? I giuristi, in particolare quelli che di solito vengono indicati come ulema. E gli ulema, in una tradizione religiosa millenaria, ricca e molteplice come quella islamica, appartengono ovviamente a diverse scuole, esprimono le interpretazioni più varie e plurali, anche divergenti, e comunque legate a tradizioni e luoghi diversi. Questa amplissima “giurisprudenza” (fiqh) non è la sharia, ma la sua interpretazione più o meno autorevole, più o meno condivisa.

I talebani non sembrano però intendere in questo modo la questione: per loro fonti, interpretazioni e sentenze sono tutt’uno. A conferma, Waheedullah Hashimi, un esponente talebano, ha detto in questi giorni in una intervista all’agenzia Reuters: «I nostri ulema decideranno se le ragazze possono andare a scuola o meno… decideranno se (devono) indossare l’hijab, il burqa o solo velo e abaya o qualcosa del genere, oppure no. Dipende da loro». Cioè dipende dagli ulema, non dalla sharia e dalle sue fonti, né tantomeno dalle “ragazze”.

Al tempo del primo governo talebano (1996-2001), la normativa dedotta dalla sharia era di fatto una decisione che partiva dal mullah Omar, che dettava agli ulema indicazioni come: chiusura di cinema e teatri, divieto di giocare, di cantare, di ascoltare musica, di far volare gli aquiloni, ecc. E la proibizione per le donne di ogni età di lavorare al di fuori delle mura domestiche, di uscire senza essere accompagnate da un parente maschio o di frequentare una scuola. Con l’obbligo di indossare in pubblico lo scafandro del burqa, per scomparire.

Queste cose però non le dice la sharia, ma l’interpretazione della sharia che fanno gli ulema talebani. E i jihadisti dell’Isis hanno mostrato, durante il periodo del califfato in Iraq e Siria, di avere un’interpretazione se possibile ancora più arbitraria e ristretta.

Il nodo è certamente collegato alla fede islamica, ma non è dottrinale, bensì religioso, culturale. E questo vale beninteso per qualsiasi religione, cristianesimo compreso: una religione non regge al trascorrere del tempo se non trova continuamente la chiave interpretativa che la rende capace di esprimere adesso e qui la fede che l’ha generata e che la mantiene viva e attuale.

La confusione tra fede e religione è da sempre causa di sangue e morte: dalla condanna di Al-Allaj, il martire mistico dell’Islam, al Malleus maleficarum, il manuale per accusare le donne di stregoneria e mandarle al rogo.

Senza ammettere la necessità di uno sviluppo della religione alla luce della fede si resta ancorati, come nel caso degli islamisti, a concezioni (un tempo, in una certa cultura normali e condivise) che, per esempio, considerano i diritti degli individui in modo diverso in base a stato sociale, religione o genere.

La teorizzazione dell’inferiorità del genere femminile non è certo un’invenzione islamista, anche se gli islamisti l’hanno assunta a dogma. Grazie a Dio, non è però espressione della fede, non lo è per quella islamica come per quella cristiana, nonostante i fondamentalismi di tutte le latitudini e longitudini difendano con dogmatico accanimento il teorema dell’inferiorità delle donne, letteralmente a spada tratta.

 

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