L’inferno dei rifugiati continua in Italia

Don Mussie Zerai, responsabile dell’agenzia Habeshia, racconta la vita degli immigrati che arrivano nel nostro Paese: dall’emergenza umanitaria dei “centri di accoglienza”, alla vita di emarginazione nelle periferie delle città. Analizza poi i provvedimenti del governo italiano e dell’Europa, auspicando soluzioni concrete
Un rifugiato in un centro di prima accoglienza

Don Mussie Zerai è calmo, la voce non ha esitazioni, ma le sue sono parole di denuncia e indignazione. Spiega con forza e decisione, la condizione degli immigrati che arrivano sulle coste italiane. Al di là del Sahara, in Eritrea e Somalia, queste persone sono state vendute, rapite, imprigionate: un vero inferno che non cessa neppure in Italia, dove li accolgono i centri di accoglienza affollati o i ponti delle periferie, dopo fughe improvvisate. L’Europa pensa a rafforzare Frontex, ma per l’Italia è emergenza continua.

Don Zerai, come definirebbe le modalità di accoglienza in Italia dopo tutto quello che queste persone hanno affrontato?
«Quando la legge Turco-Napolitano ha iniziato a prevedere i centri di accoglienza, o meglio di detenzione, abbiamo gridato che questo sarebbe stato un trauma nel trauma. Queste persone vengono a cercare libertà e dignità e si trovano rinchiuse in centri di detenzione con tanto di militari che le sorvegliano. Di fatto si ritrovano in carcere senza aver commesso nessun reato. Poi ci ha pensato la Bossi-Fini a riempire questa lacuna facendo diventare l’immigrazione un reato. Queste persone cercano aiuto e invece vengono criminalizzate e trattate come tali. Basta guardare i sopravvissuti di Lampedusa, iscritti nel registro degli indagati. La loro colpa è quella di essere sopravvissuti, di non essere morti insieme agli altri. Il paradosso è che i morti hanno ricevuto la cittadinanza, mentre i vivi sono stati indagati: proprio uno strano modo di accogliere le persone. Invece di dare cittadinanza ai morti sarebbe meglio dare un po’ di diritti e dignità ai vivi».

Poi l’inferno, il travaglio non è finito anche se si esce dai centri di detenzione…
«No, anzi. In Italia il grosso problema è che non c’è una legge organica sul diritto d’asilo. Noi la chiediamo da 15 anni, integrata con un sistema di accoglienza nazionale che preveda un percorso per queste persone e li accompagni fino alla piena integrazione e inclusione sociale, culturale, economica. L’Italia vive – non si capisce perché – da più di 20 anni in perenne emergenza: sarebbe stato semplice creare un percorso che risolvesse problematiche quali la distribuzione di queste persone nel territorio, il tipo di accoglienza da fare e l’integrazione da perseguire.

«Sarebbe stato più facile, come fanno tutti gli altri Paesi. Se si guarda alla Svizzera, alla Germania, alla Svezia, alla Norvegia, tutti hanno un sistema di accoglienza nazionale con una legge organica che prevede con quali fondi, il tipo di percorso e la gestione di questo fenomeno. L’Italia, poi, rispetto agli altri Paesi europei è quella che riceve meno rifugiati. Eppure i mass media fanno immaginare chissà quale invasione. Se noi andiamo a vedere le statistiche, l’Italia è quella che ha meno richieste di asilo. La Germania riceve 40 mila richieste l’anno, l’Italia ne riceve a malapena 10 mila. Poi di quelli che ora vivono in Italia non tutti vi sarebbero voluti rimanere. Dopo che l’Italia ha preso loro le impronte digitali ci sono dovuti rimanere per forza in base agli accordi di Dublino, che prevedono che il primo Paese di approdo sia competente per esaminare la richiesta. Se l’Italia non prendesse le impronte non ne rimarrebbe neanche uno. Perché le persone sanno qual è la condizione che li aspetta. Qui a Roma abbiamo più di 5 mila persone che sono costrette a vivere in catapecchie, baraccopoli, strutture fatiscenti. Sono rifugiati riconosciuti per legge, ma sono abbandonati a loro stessi».

Si dice che sia un problema anche di fondi…
«I fondi, anche quelli europei per l’integrazione, sono usati malissimo, distribuiti in base ad amicizie e giochi fra cooperative e organizzazioni varie. I gestori dei Cara dicono che un immigrato costa 72 euro al giorno, ma l’immigrato direttamente non riceve neanche due euro. E allora qualcuno mi spieghi dove finiscono i 70 euro. Noi abbiamo proposto più volte di tornare alla legge Martelli che prevedeva che il contributo venisse dato direttamente all’interessato. Poi lui se la sarebbe vista da solo. Se dessero in mano la metà di quello che spendono oggi, cioè 35 euro, queste persone potrebbero vivere tranquillamente, prendendosi, ad esempio, una stanza in affitto. Si sarebbero arrangiati come potevano. Ma poi c’è un’altra cosa: le strutture di accoglienza li tengono massimo un anno, poi li buttano in mezzo alla strada. Cosa si è risolto, quale integrazione si è fatta? Si è solo prolungata l’agonia e la sofferenza di queste persone».

Cosa si potrebbe fare?
«Per esempio costruire, con i fondi che l’Europa dà per l’integrazione, delle case popolari da dare ai rifugiati riconosciuti. Così possono anche cominciare a dare un contributo pagando un affitto minimo».

Il 25 ottobre ha incontrato la presidente della Camera, Laura Boldrini. Cosa pensa lei di questa situazione?
«Lei conosce benissimo questa realtà: era portavoce dell’Unhcr, l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati; con lei abbiamo fatto tanti percorsi, tante battaglie prima che entrasse in politica».

Che può fare ora dalla sua posizione?
«Non è che può fare molto. Può sollecitare il Parlamento ad agire ed è questo che le abbiamo chiesto. In più speriamo che il Parlamento italiano, insieme a quello europeo, lavori per prevenire disastri come quello di Lampedusa. La prevenzione, però, non può essere quello di cui si sta parlando adesso, cioè rafforzare Frontex».

Il rafforzamento di Frontex, l’operazione Mare Nostrum, la creazione di una specie di flotta navale: è davvero questa la soluzione?
«Se questa flotta navale è lì per accogliere le persone che vengono dal mare non è cambiato niente. Peggio ancora se questa flotta è lì per respingerli. Verso dove li respingerebbe? Verso la Libia da cui scappano? Respingerli lì vuol dire condannarli a essere maltrattati e subire ogni tipo di violenza. L’Europa si renderebbe complice di quegli abusi. Invece sarebbe utile se si aprisse un corridoio umanitario dall’Unhcr e da altre organizzazioni internazionali per raccogliere le richieste d’asilo di queste persone prima ancora che siano costrette a prendere i barconi. Una volta in mare hanno messo già in pericolo la loro vita: molti muoiono prima ancora di arrivare in acque internazionali. Queste nuove navi che hanno previsto incontrerebbero le persone quando hanno percorso più della metà della strada. Ma quanti muoiono prima ancora di iniziare? Quanti barconi affondano prima ancora di uscire dalla Libia? Questo nessuno viene a saperlo. Queste navi, insomma, possono salvare i fortunati che sono riusciti almeno a percorrere metà strada. Non è una soluzione ragionevole».

Certe volte la gente ha bisogno di questi messaggi.
«È un fumo nell’occhio. Giusto per dire che qualcosa è stato fatto. In più bisognava giustificare l’esistenza di Frontex. Quando nacque ci dissero che avrebbe prevenuto i morti in mare. Eppure dopo la sua nascita sono morte migliaia e migliaia di persone. Se dici così dicono: “Frontex ha salvato molte vite umane!”. Può darsi, però di fatto stiamo ancora raccogliendo cadaveri».

Quali sono le vie alternative allora?
«L’ho detto, anche in questi ultimi incontri, al ministro degli Esteri, al ministro dell’Integrazione e al presidente della Camera. Per noi la soluzione è prima di tutto che nei Paesi di transito si dia la possibilità alle ambasciate europee di poter raccogliere le richieste di asilo delle persone che emigrano, come accadeva fino a poco tempo fa. Fino a giugno scorso l’unica ambasciata che continuava a fare questo lavoro era quella svizzera, ma ora, col referendum che hanno fatto a giugno, hanno bloccato l’unica possibilità legale che c’era. Il motivo? Era rimasta l’unica ambasciata ad aprire le porte e tutti andavano lì. I trafficanti fioriscono e guadagnano perché non c’è altra via, nessuna alternativa, tutte le vie legali sono chiuse. Quindi l’invito è di creare vie legali tramite le ambasciate che abbiano anche la possibilità di organizzare programmi di reinsediamento in altri Paesi una volta che l’Unhcr nei suoi campi profughi ha riconosciuto legalmente i rifugiati. È ciò che è avvenuto dopo la guerra in Libia nel 2011. Ma questo si fa solo quando c’è un’emergenza.

Spieghi meglio la sua proposta..
«Se ogni anno l’Europa si organizzasse dandosi una quota di persone da accogliere legalmente come rifugiati, allora sarebbe sufficiente fare un mandato all’Unhcr per preparare quel determinato numero di persone esaminando le richieste in Libia, in Sudan, in Etiopia. Ma devono essere numeri consistenti. Non che una Germania dice di prendere 10 persone quando in un campo profughi ce ne sono 70 mila. Questo è il problema. I campi non è che non ci sono. Nel Nord dell’Etiopia ce ne sono 4 che ospitano solo eritrei, poi altri nel Sud che ospitano sudanesi e somali. I giovani non hanno la pazienza di aspettare anni in un campo profughi senza fare niente, senza possibilità di studio. Il giovane vuole realizzare qualcosa, vuole sognare, vuole tentare di realizzare i suoi sogni. È per questo che tentano la via illegale che gli propongono i trafficanti, una via breve (solo sei mesi per arrivare in Italia) ma pericolosa. Tra sei anni in un campo profughi morendo lentamente e sei mesi di rischio i giovani preferiscono di gran lunga sei mesi di rischio. Per questo noi stiamo cercando di proporre altre vie alternative, legali, che sottraggano le persone a questa scelta».

C’è una storia che vuole raccontare che l’ha particolarmente colpito nell’ultimo viaggio a Lampedusa? Ci sono state anche tante famiglie spezzate e le bare bianche hanno sconvolto un po’ tutti…
«Ho conosciuto un uomo che ha perso la moglie e due figli: sono rimasti in fondo al mare. Era toccante il modo in cui lui stava cercando di sopravvivere a questo. Un altro ragazzo ha perso il fratello. Mi diceva: “Ci siamo aiutati reciprocamente, una volta sono scivolato io e mi ha tirato fuori, poi è scivolato lui e l’ho tirato fuori, alla fine poi… . È triste il fatto che non abbiano potuto partecipare neanche ai funerali dei loro cari. Loro però sono lì che si fanno coraggio l’un altro. Qualcuno è giù moralmente, qualcun altro ha tentato anche il suicidio perché dice che non ha ragioni per continuare a vivere. Queste persone avrebbero bisogno di supporto psicologico. È veramente toccante vederli in quelle condizioni. Quando il 23 mattina abbiamo fatto la preghiera nella parrocchia di Lampedusa tutti i 107 sopravvissuti che sono rimasti ancora nell’isola – perché hanno spostato solo i minorenni – erano lì a pregare. Mi ha sorpreso molto anche la loro fede. Durante la cerimonia alcuni di loro hanno organizzato dei canti attraverso i quali hanno voluto esprimere un ringraziamento al Signore per avergli donato ancora la possibilità di vivere malgrado tutto quello che hanno superato».

Cosa possiamo fare noi italiani per aiutare?
«Intanto superare l’indifferenza attraverso l’informazione, in modo che l’opinione pubblica sappia cosa sta succedendo e perché queste persone arrivano. L’opinione pubblica ha una percezione spesso sbagliata delle persone che arrivano con i barconi a causa del populismo e della demagogia politica che si usa fare sulla pelle di questi uomini per campagne elettorali. Quindi, da una parte il dovere di informare, dall’altra quello di non dimenticare. Consapevoli di questo stiamo spingendo, in accordo col sindaco di Lampedusa, affinché il 3 di ottobre diventi un giorno di memoria per ricordare questa tragedia e attraverso di essa tutti quelli che in questi 15-20 anni sono morti nel Mediterraneo. Avere una giornata di memoria vuol dire ricordare che stiamo parlando prima di tutto di esseri umani, non del problema astratto dell’immigrazione. Una giornata di memoria aiuterà sì l’opinione pubblica ma anche chi ha responsabilità di governo a fare delle scelte pensando a tutelare la vita umana e non al tornaconto elettorale».

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