L’incertezza al governo

Nel regno dei faraoni la presenza dell'esercito resta fondamentale. L'immagine è stata intaccata dagli scontri sul Sinai, ma i militari tengono di fatto le redini del potere
Mohamed Morsi Isa al-Ayyat

Negli ultimi mesi, già prima della crisi esplosa negli ultimi giorni a causa del film considerato offensivo nei confronti di Maometto che ha causato incidenti di varia gravità in molti Paesi a maggioranza islamica, arrivare in Egitto significa sperimentare un clima di incertezza e provvisorietà.
 
Un po’ tutti stanno a vedere quanto succede e come si svilupperanno le cose. Il Paese si trova, infatti, ad essere governato da un presidente eletto democraticamente, ma la vittoria è stata caratterizzata da un margine stretto e molti sono convinti che, se tutti avessero votato, soprattutto i giovani, forse le cose sarebbero andate diversamente. Infatti, la scelta fra candidati, come un ex generale e un esponente dei Fratelli Musulmani, ha scoraggiato molti, spingendo all’astensione. Ma quello che più conta è che il Paese, in questo momento, si trova con un potere esecutivo e legislativo non fondati su una nuova costituzione ed un parlamento. I due poteri confluiscono nelle mani del presidente, che opera scelte e cambiamenti di persona, dimostrando abilità politica, certamente, sebbene priva della chiarezza necessaria al Paese per comprendere la direzione da prendere.
 
Mohamed Morsi Isa al-Ayyat (al centro nella foto), infatti, dopo la sua elezione ha ribaltato la situazione in cui l’avevano costretto i militari prima delle consultazioni post-rivoluzione. Il 18 giugno il governo militare aveva approvato un emendamento alla costituzione che, di fatto, mirava a limitare i poteri del presidente. Il neo-eletto, nel giro di due mesi, ha annullato la decisione autoconferendosi pieni poteri legislativi, sia pure non ufficialmente, fino all’elezione del nuovo parlamento, dopo che la Corte Suprema aveva sciolto il precedente a metà giugno.
 
Il Presidente ha, inoltre, approfittato degli scontri sul Sinai, che all’inizio di agosto hanno provocato la morte di alcuni soldati egiziani, per licenziare Mohamed Tantawi, ministro della difesa e capo dell’esercito, che aveva retto l’interim del dopo Mubarak. La delicata posizione è stata assunta da Abdel Fattah al-Sisi, un ufficiale più giovane. Si è trattato di una mossa d’immagine del Paese, più che su meccanismi costituzionali. L’opinione pubblica ha taciuto, probabilmente, perché ferita dall’umiliazione subita da un esercito totalmente impreparato di fronte a un attacco da parte di un gruppo di beduini e terroristi, infiltrati forse da fuori. Gli equilibri fra governo ed esercito sono delicati e fondamentali per il futuro del Paese. In molti, soprattutto, la minoranza cristiana, vede nelle forze armate quella fascia intermedia capace di garantire che l’Egitto non cada, come un nuovo Iran, in mano ai fondamentalisti musulmani.
 
D’altra parte, persone autorevoli sono convinte che i militari hanno cercato di costringere l’intero Paese all’angolo, creando le premesse per una ingovernabilità di fatto, che portasse nuovamente le folle nelle piazze con sommosse popolari in modo da rimettere in gioco tutto. Non si deve dimenticare che, dalla proclamazione della Repubblica nel 1952, i presidenti egiziani – Nasser, Sadat e a Mubarak – sono stati sempre di estrazione militare e che la presenza dell’esercito nel Paese è tangibile e resta fondamentale.

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