L’immagine del divino

La capitale ospita al Vittoriano 70 opere dell’artista olandese. In cerca dell’armonia perfetta.
Mondrian

Certi artisti diventano così popolari da rischiare di non venire più compresi. Le tele di Mondrian con le loro geometrie, le linee rette, i quadrati a tinte forti oggi le ritroviamo pressoché ovunque: hanno ispirato mode, design, tappezzerie, oggettistica. Un po’ come i lavori di Andy Warhol.

Difficile ritrovare il Mondrian autentico. La rassegna romana offre appunto l’occasione di un viaggio insieme a un pittore che, come molti colleghi, ha saputo camminare attraverso varie fasi del suo spirito e quindi della sua espressione artistica, alla ricerca di un’armonia totale.

 

Incomincia come paesaggista morbido e sognatore, ritraendo spiagge e boschi della sua terra piatta e nebbiosa. Maggio a Noordine (1886, L’Aia) è una distesa placida all’alba, con le nuvole che corrono in cielo. C’è freschezza, meraviglia. Il Boschetto di salici del 1904 è un rifugio ombroso. Le pennellate liquide e un poco indistinte lo avvicinano alle nature di Munch, con il quale sembra avere in comune una certa tristezza, unita al desiderio di spazi più aperti, più vivi. Sembra gli manchi qualcosa.

 

All’epoca, Mondrian non è né un post-impressionista né un simbolista, per citare due correnti artistiche in voga. Ama le ombre, i tramonti, le dissolvenze brumose, sofferte, del colore. Munch, proseguendo su questa strada, coglie il lato più disperato della vita. Piet Mondrian a quarant’anni, invece, dopo aver visto le opere di Braque, Cézanne e Picasso, rischia e scende a Parigi per imparare.

 

La sua pittura si apre. Diventa luminosa. Cerca l’armonia totale fra tutto ciò che esiste, e il cubismo, con la sua sintesi estrema, lo attira. Verso il 1910 dipinge dune e marine brillanti: non come sono in realtà, ma come la sua fantasia le vede o meglio le vorrebbe vedere: emanazioni della luce. Anzi, arriva a solidificare i raggi del sole come punte brillanti. Le onde del mare, ad esempio, si fanno gocce impregnate di luminosità: racchiudono il sole intero in ciascuna, come il Paesaggio con dune del 1911.

 

Mondrian cerca l’Assoluto. Le sue forme cubiche, o cupe o contorte ancora, puntano alla semplificazione, che è la porta della “semplicità”, cioè dell’unità del tutto.

Gli alberi (1912-13, L’Aja) diventano così non sagome stilizzate, ma linee aguzze dell’anima dell’albero, della sua linfa vitale. Sugli anni Venti del Novecento, Mondrian arriva alle sue celebri Composizioni. Rettangoli e quadrati, geometrie di universi infiniti captati, imprigionati da colori forti: rosso, giallo, blu, parole di una dimensione “altra”. Queste sono tele da contemplare. Perché, come in quelle immense di Rothko, si scandisce il ritmo del tempo, la pulsazione della vita del cosmo. Le linee così acute e dritte, precise, sono come una musica forte e sottile. Con gli anni, sembrano contenere tutto, il reale e l’irreale. La grande Composizione del 1938 è uno dei raggiungimenti più alti. C’è una luce abbagliante che si staglia fra le linee verticali e orizzontali, che poi, nelle opere successive, aumenta fino a dominare totalmente.

 

Osservare queste opere e intuire che esse sono, in qualche modo, immagini del divino è una scoperta emozionante. Si avverte che è ciò che Mondrian vuole. Come Dante, nel Paradiso, per descrivere Dio parla di cerchi concentrici – usa cioè una figura geometrica, il massimo dell’astrazione-concretezza – così il pittore si sprofonda nei suoi “quadri” dentro l’armonia perfetta.

È ciò che gli basta. E ci basta. Questo, forse, è Piet Mondrian, fino al 1944, l’anno in cui ci lascia.

 

Mondrian, l’armonia perfetta. Roma, Vittoriano. Fino al 29/1 (catalogo Skira).

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