L’esordio di The Gilded Age

Ambientata a New York, The Gilded Age.  La nuova serie di Julian Fellowes, già creatore di Downton Abbey e Belgravia, in onda su Sky Serie e disponibile in streaming su Now dal 21 marzo.
Fonte: Wikipedia

Arriva stasera, 21 marzo 2022, su Sky Serie, una curatissima e affascinante proposta dal titolo The gilded age. Si presenta con un primo episodio di circa 80 minuti, lungo più o meno mezz’ora in più di quelli che verranno in seguito: nove in tutto, due per lunedì, fino al 18 aprile prossimo (ma si possono vedere anche on demand su Now).

È un frammento d’esordio che colpisce, intriga, coinvolge per la cura e l’abbondanza visiva, anche se a leggere il nome del creatore – il Julian Fellowes già premiato con l’Oscar per Gosford Park e fortunatissimo autore di Downton Abbey – lo stupore è relativo. Perché le aspettative erano alte, anche se silenziosamente, sotto traccia, le aspettative contemplano sempre un certo grado di timore, rafforzato, in questo caso, dal fatto che una delle creazioni seriali di maggior successo degli ultimi anni – Downton Abbey, appunto – fatta di sei stagioni divenute anche due film (il secondo è in arrivo) aveva già avuto una sua presunta erede (sempre fellowiana): una serie dal titolo Belgravia, simile alla prima ma rispetto a questa, pur con i suoi punti di forza, rappresentante di un piccolo ma innegabile passo indietro.

La buona notizia, dunque,  dopo aver visto il primo capitolo di The Gilded age, è che siamo di nuovo al livello della serie ambientata in Inghilterra tra il 1912 e il 1925: vi siamo per la limpidezza paesaggistica e scenografica, per l’impatto coreografico (tra arredi e costumi) per la qualità di una cornice storica ben definita, accompagnata da una vivace coralità di personaggi. Che però, ed è questo il punto centrale della questione, oltre a rinnovare il tema delle differenze di classe con il rapporto tra ricchi (vecchi e nuovi) e i loro servitori, sembra composta da figure (tutte) piuttosto connotate, corpose e portatrici di buona tensione narrativa. E questo fa la vera differenza: il rapporto tra dipinto e cornice. I numerosi volti di The gilded age mostrano, almeno finora, tali positive caratteristiche attraverso la qualità dei dialoghi e un lento ma immediato e continuo versamento di motivazioni interiori.

Qualità non scontate nella serialità, inserite qui nella novità lampante del “terzo tomo” di quella che potremmo definire una sorta di trilogia storica fellowiana: la novità è che cambia lo sfondo in The Gilded age. Salpiamo, infatti, dalla Gran Bretagna di Downton Abbey e Belgravia a una magnifica New York del 1882. Di strade affollate, carrozze e facciate, di fermate del treno e interni di lusso, con dettagli incisivi ed immersivi intorno e addosso ai personaggi: un paesaggio emozionante, sorprendente, che entra subito in sintonia col dinamismo dei due mondi paralleli – dei serviti e dei servitori – di queste due rette che in qualche modo finiscono per incontrarsi e la cui relazione entra a sua volta nel circolo/scontro (assoluto motore narrativo della serie) tra vecchi e nuovi ricchi di The gilded age.

Un faccia a faccia dal sapore vagamente gattopardesco: siamo distanti dal passaggio di consegne pacifico tra i Salina e i Sedara siciliani, perché qui abbiamo una famiglia rappresentante di una vecchia borghesia dominante (una quasi aristocrazia che affonda le radici tra i padri fondatori della Nazione) e una seconda, potente e determinata che vuole essere accettata nel vecchio ordine per nutrirsi di questo e lentamente sovvertirlo. Tra i primi e i secondi, però, almeno finora, non vi è nessun accordo quieto, nessun pianificato passaggio di consegne, come invece avveniva nel film di Visconti tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Anzi, il primo episodio di The gilded age finisce senza alcun ballo sfarzoso, ma addirittura con un ricevimento dato dai decisi e rampanti parvenù che viene completamente disertato dall’ancien regime newyorkese: per dare un segnale inequivocabile e tagliente di chiusura.

Sulla rabbia degli offesi inizia una partita che parla di desiderio e lotta per il potere, di prestigio e riconoscimento. È una sfida tra chi lo cerca (i nuovi ricchi potenti nel settore delle ferrovie) e chi non vuole perderlo: soprattutto un’anziana signora capace di influenzare un’intera elite di potere. In mezzo ai due opposti spuntano fuori interessanti personaggi cerniera: efficaci guastatori dei due schieramenti, come una nipote orfana giunta presso la dimora dell’anziana donna, o la giovane ragazza di colore da questa incontrata durante il viaggio. Figura sospesa, quest’ultima, tra un presente da cameriera e un potenziale futuro da scrittrice. Entrambe, forse, rappresentano un “mondo nuovo” oltre quello definito ed evocato dall’America di quegli anni; un mondo finora abbagliante per alcuni fasci luminosi emessi, ma crediamo più capace, con lo stendersi degli episodi, di tirare fuori la potenza della grande Storia (vedi anche il tema dell’emigrazione/immigrazione di allora).

Tanti ingredienti, insomma, sottoforma di robusti personaggi, promettono movimento e sostanza a The Gilded age, ai quali si aggiungono altri esponenti delle varie famiglie (i giovani figli) e i vari maggiordomi e camerieri mai vuoti sullo sfondo, ma invece creature vive e pulsanti come lo erano in Downton Abbey. Dunque sembra esserci, in questo elegante affresco in costume, materiale per appassionarsi con personaggi non da soap, e la speranza è sempre la stessa: trovare, alla fine del promettente viaggio in The gilded age, spunti per riflessioni non banali su valori e disvalori dello stare al mondo. Vedremo. Buona visione, quindi, a chi vorrà.

 

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