L’eredità di Ravi Shankar

Il musicista indiano, maestro di sitar, è morto all'età di 92 anni negli Stati Uniti. Per la sua musica e i suoi concerti in tutto il mondo era definito "l'ambasciatore culturale" dell'India. Collaborò anche con George Harrison dei Beatles. Dal nostro corrispondente
Ravi Shankar

Se n’è andato un altro dei miti artistici dell’India della seconda metà del Novecento. Ravi Shankar, il grande maestro di sitar, morto a San Diego in California a novantadue anni, ha costruito la leggenda dell’espressione artistica del sub-continente insieme a Satyajit Ray, regista cinematografico, a M. F. Hussein, grande pittore, e a Lata Mangeshkar, cantante classica. Pochi altri, nel pur ricchissimo gotha artistico indiano, hanno raggiunto il loro livello. Ora solo Lata è rimasta a testimonianza di una stagione davvero unica e forse irripetibile nel panorama delle arti di questa parte di mondo e di questa cultura.

Shankar ha suonato in pubblico fino a poco tempo fa, insieme alla figlia, Anoushka Shankar, anche lei sitarista. Il loro ultimo spettacolo risale al 4 novembre a Long Beach in California. Il suo vero nome di battesimo è Robindra ed è nato a Varanasi, l’antica Benares, cuore dell’induismo classico, città magica ed unica al mondo, adagiata sulle rive del Gange, il fiume sacro per eccellenza. L’infanzia è stata piuttosto avventurosa, condita da una certa povertà iniziale e dalla presenza solo della madre, mentre il padre girava costantemente per la sua professione di avvocato, filosofo e scrittore, oltre che di ministro di uno dei Maharajah locali, quello di Jhalawar.

Il momento forse decisivo per la vita futura del grande maestro di sitar venne quando, nel 1930, Uday Shankar, il fratello maggiore, trasferì l’intera famiglia a Parigi. Negli anni successivi anche Ravi seguì spesso il gruppo artistico del fratello, che presentava la musica classica indiana sia in Europa che in Nord America. Nei decenni successivi si affermò come compositore e maestro, ma soprattutto come performer, offrendo concerti in tutto il mondo e contribuendo in modo decisivo, insieme a Satyajit Ray, alla diffusione della cultura classica indiana nel mondo.

La sua fama, comunque, divenne vera celebrità in Europa e negli Usa nel corso degli anni Sessanta, quando iniziò la sua collaborazione con la controcultura occidentale. Divenne amico di George Harrison e partecipò ai mitici concerti di Monterey e Woodstock, contribuendo anche al Concerto per il Bangladesh, nel corso della guerra con la quale il Paese asiatico si staccò dal Pakistan. Si trattava del primo musicista classico indiano che diventava un mito in Occidente. La collaborazione con George Harrison portò alla produzione di due album destinati a fare la storia della musica fusion: “Shankar Family & Friends” e “Festival of India”. In entrambi il compositore fu Ravi Shankar. Ma il suo talento lo portò anche a comporre pezzi per balletti e film sia in India che in Occidente e fra questi merita ricordare Gandhi.

Non si contano i riconoscimenti e i primi internazionali: fra tutti quelli senza dubbio più significativi restano il Magsaysay a Manila e il Bharat Ratna, il riconoscimento più alto concessogli dal presidente della Repubblica indiana nel 1996. Ma già dieci anni prima aveva ricevuto la nomina presidenziale come membro del Rajya Sabha, il Senato indiano.

La grandezza di Shankar, oltre al talento musicale e alla varietà della sua musica sul sitar, è stata la sua capacità di far conoscere lo strumento ed il tipo di musica che esso offre al mondo occidentale, ancora piuttosto lontano da questo tipo di musica negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Proprio a cavallo fra i due decenni Shankar, come un vero ambasciatore culturale dell’India, offrì spettacoli rimasti memorabili in diversi Paesi dell’Europa (in Russia nel 1954) e del Nord America e Giappone nei quattro anni successivi.

Il suo tocco era inconfondibile per gli esperti di sitar: note basse forti e potenti accompagnate da tocchi di grande serenità, capaci di infondere una dimensione spirituale a tutta la sua musica. Pur essendo un tipico esponente della musica del Nord India riuscì ad incorporare alcuni aspetti di quella del Sud (Carnatic music) e mettere in rilievo il suono del tabla, strumento a percussione che accompagna sempre il sitar.

La dimensione artistica e spirituale di quest’uomo e del suo ambiente trape anche dal comunicato ufficiale con cui la famiglia ha annunciato la morte del grande artista. Vi si dice, fra l’altro: «Sappiamo che tutti avvertiamo la perdita e vi ringraziamo per le preghiere e gli auguri in questi momenti difficili. Sebbene sia un momento di dolore e di lutto per tutti noi, è anche l’occasione per esprimere la nostra gratitudine per averlo avuto come parte della nostra vita. Il suo spirito e la sua eredità vivranno per sempre nei nostri cuori e nella sua musica».

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