L’emergenza non è finita

Nord-Africa, Giappone e Libia hanno la priorità. Ma chi si ricorda del dramma dell’isola caraibica? Reportage da Port-au-Prince
Port-au-Prince Haiti

L’impatto con Port-au-Prince è di quelli che non lasciano indenni. Ancor oggi la popolazione di tre-quattro milioni di persone (nessuno sa veramente quanti siano) vive per almeno un terzo in ricoveri di fortuna: tende, baracche, locali sinistrati e ancora pericolanti. Le macerie si alternano senza soluzione di continuità con le tendopoli dai colori dell’Onu e delle Ong del mondo intero, mentre le strade, spesso ancora ingombre di ogni genere di detriti ad un anno e mezzo (quasi) dal sisma che ha devastato il Sud dell’isola caraibica, sono un ininterrotto mercatino dove convergono in un caos indescrivibile tutti coloro – e sono due milioni – che debbono trovare quel qualcosa che gli permetta di vivere in quella giornata almeno.

 

Nel frattempo, comunque, le organizzazioni internazionali sono riuscite a trovare un tetto, precario ma pur sempre un tetto, per la metà circa dei sinistrati, e l’epidemia di colera è stata in qualche modo contenuta, se non addirittura debellata. La popolazione – che ricordiamo come sia stata la prima nazione al mondo ad aver abolito la schiavitù e aver già nel XIX secolo avviato una sana democrazia – ha esercitato il suo diritto di voto, eleggendo dopo ampie consultazioni, e in modo sostanzialmente corretto, un cantante alla guida del Paese, Michel-Joseph Martelly, traendolo da una ampia rosa di candidati. E senza sommovimenti pericolosi, la comunità haitiana sembra essere stata in grado di accettare e contenere il ritorno di due ingombranti ex-presidenti, Duvalier e Aristide. L’Onu continua ad assicurare la sicurezza nel Paese, in particolare a Port-au-Prince, ma piano piano si spera che il nuovo governo riesca a riprendere in mano la situazione, e permettere il ritorno ad una libertà piena del Paese.

 

La presenza delle Ong, se è stata indispensabile nei primi 9-12 mesi dal sisma, ora appare incapace di dare al Paese quello slancio economico che pare necessario per far ripartire la macchina dell’economia. Anzi, la presenza di tanti agenti delle Ong porta un potenziale fattore di squilibrio sociale, con corruzioni grandi e piccole che stanno invelenendo il clima della capitale e del Paese intero. Paradossalmente sono molto più efficaci le piccole organizzazioni caritative (spesso legate a qualche organizzazione religiosa, cattolica o meno), impegnate in piccoli progetti di sviluppo rurale, che le grandi macchine organizzative internazionali che spendono il 60 per cento dei fondi a disposizione per i salari dei loro dipendenti, spesso venti-quaranta volte superiori a quanto serve ad una famiglia haitiana di cinque-sei persone per sopravvivere.

 

Cosa può fare la comunità internazionale? Non dimenticare. Non abbandonare il Paese caraibico. Ma dare spazio, attraverso la cooperazione internazionale e i suoi progetti “vivibili” e utili, ad una strategia di sviluppo. Servirebbe una conferenza internazionale su Haiti, con la volontà di trovare nuove forme di intervento. Serve nel contempo una conferenza nazionale di riconciliazione, per tornare al più presto alla sovranità nazionale. In tutto ciò la Chiesa cattolica, pur anch’essa travagliata e a volte divisa, fa la figura di unica istituzione che “tiene”, con la sua capillare presenza nel Paese e la sua ben radicata struttura educativa e sanitaria. Il che fa sperare, almeno un po’.

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