Le visioni di luce

«Si sparse ovunque la notizia: che io vedevo. Che il velo del mondo per me si sollevava come una tenda e io guardavo oltre». Per Ildegarda iniziano in tenera età le visioni. Il racconto da Ildegarda. La potenza e la grazia
Lucia Tancredi "Ildegarda".

Visioni di luce che la invadono sin da ragazzina tanto da farla stare male. L'infanzia di Ildegarda fin dagli inizi ha  connotati molto diversi da quella degli altri ragazzi. La sua capacità inizia ad essere riconosciuta, e per tale ragione, viene messa in convento. Il racconto in prima persona dal romanzo di Lucia Tancredi per Città Nuova da Ildegarda. La potenza e la grazia .

«Come tutti ho ricordi che mantengono il leggero dell’infanzia: sonagli, campanelle d’argento, pepite d’oro, piccole esche di luce. Dovendo stare in casa, il mondo di fuori me lo figuravo immerso in una polvere di danza che non era bianca, ma tinta come lo smeriglio del vetro: amaranto, smeraldo, lapislazzulo, oro. Allo stesso modo erano i fiori che mi donavano, che del mondo di fuori portavano come pegno quelle tinte, ogni volta colorate di un’iride diversa, come se anche la terra si impregnasse di linfe, delle polveri sciolte con cui il frescante aveva dipinto le nostre stanze. Allora pensavo che nel mondo esiste una legge che impera profumando, colorando, parlando la notte con gola di civetta e di giorno con i sonagli degli uccelli o con la lingua dei cani che sanno sempre dire quello che pensano.

«Però una notte – forse avevo tre anni o poco più – fui invasa da uno spargimento di luce, e non veniva all’esterno di me come un sole o una lampada, ma era uno slargo che s’apriva davanti ai miei occhi. Svegliai la balia che mi dormiva accanto, ma lei non vedeva nulla e mi scoteva come se mi fossi perduta dentro un brutto sogno. Fui invasa da quello stesso terrore – lo compresi molto tempo dopo leggendo le Scritture – che prende i profeti quando Dio rovescia loro un cumulo di destino. Perché quella luce che mi aveva svegliato dal sonno mi chiamava, conosceva il mio nome, sapeva già quello che avrei dovuto essere. I profeti di Dio all’inizio non vogliono mai ascoltare.

«Non vogliono essere la Voce che parla agli uomini sempre troppo duri di cervice. I profeti vorrebbero stare nel calmo delle loro case e invece Dio li svuota della vita, così come farebbe con una tasca. Giona si ribella e Dio lo fa cadere in acque tempestate dove lo inghiotte la balena femmina e lo rigetta poi come uno sputo. Amos dice: non sono profeta, io. E Isaia urla: fino a quando Signore?
Quella luce non era come nei miei specchietti, negli smerigli colorati. Mi chiamava da lontano con il nome, ed era quasi un risucchio di vento. Sentii quella prima volta che la mia innocenza era perduta.

«Ero stata violata. Non potevo essere più la bambina leggera che portava per le stanze il moscone d’oro legato col filo di seta. Sapevo che di notte sarebbe successo ancora. E così fu: la luce e la voce. Aiutavo la balia a sistemare il letto tirando per bene il lino delle lenzuola senza un increspo né una piega, facendo in modo che quell’operazione fosse lentissima, poi la costringevo a vegliare raccontandomi storie. Ma quando la sentivo crollare per la stanchezza e col respiro abbandonare la mia presa per andare lontano con i sogni, mi sentivo sola e gettata nel mondo, come alla nascita.

«E mi sforzavo, dicevo a me stessa che nulla sarebbe successo. In questo modo mi procuravo mali alla testa feroci che mi assillavano senza darmi tregua, come le cicale d’agosto che usano cento martelli di ferro e pare non abbiano mai sete.

«Accadde che in uno dei pochi giorni in cui l’aria era tiepida e mia madre aveva vaghezza d’uscire, mi venne concessa una breve passeggiata. Tenevo la balia per mano e mi inebriavo per il colore vivido d’un campo verde dove erano mucche al pascolo. Tutto il cielo volgeva al chiaro, poiché il vento aveva allontanato le nubi. Mi sentii invadere dalla Luce, come quando le donne raccontano la piena del latte. Ma questa volta, poiché ero felice, non mi opposi, non feci contrasto. La mano della balia era forte e calda, il creato pieno di viridità e le bestie mi ricordavano l’innocenza che era all’inizio della creazione. Forse durò tutto un attimo.

«Ma quando il mondo si riprese i suoi contorni e i suoi colori, mostrai alla balia con il dito: guarda balia, c’è un bel vitellino, tutto bianco con macchie marroni sul muso, sul dorso e sulle zampe. La balia strabuzzò gli occhi, perché vedeva solo una vacca gravida enorme che biascicava l’erba. Di lì a poco nacque un vitellino tale e quale l’avevo visto dentro sua madre, con le macchie nell’esatta posizione che avevo annunciato.

«Si sparse ovunque la notizia: che io vedevo. Che il velo del mondo per me si sollevava come una tenda e io guardavo oltre. Ogni tanto una serva mi prendeva e mi portava in una stanza dove diceva d’aver perso un pettine d’osso, una moneta. C’era chi mi chiedeva di scegliere tra fogli dove erano state annotate sentenze come vaticini. Qualcuno cominciò pure a giungere da lontano. Mi trattavano all’improvviso come una vecchia. Ma io ero bambina, con una copertella d’infanzia con cui mi accucciavo in un canto per piangere, così, tanto per non seccarmi.

«Finché tutto quel traffico dentro la casa divenne come gli insetti quando non danno pace. Non era più un segreto da nascondere tra le serve, in mezzo al tramestio della cucina. Corsero voci a mia madre che fossi posseduta. Le dissero che il Maligno, l’antico serpente che affila volentieri la lingua contro le donne, si serve anche di bambine senza malizia. Oppure, che la mia malattia mi facesse usare in maniera torta la mente, che è già scimmia della natura, figurando miracoli e illusioni. Tutto questo era troppo. Mia madre, che guardava alle cose della sua vita come uno spento arazzo, non fece nulla. Mandò a chiamare mio padre, il quale era al solito lontano come un uomo di vento. Arrivò con grande scalpitare di cavalli, cardini sbattuti di porte e voci levate alte.

«Il giorno seguente mi chiamò guardandomi per la prima volta negli occhi. Fece domande e io penetrai nel suo sguardo quale sarebbe stata la sua volontà: mi avrebbe allontanato dalla casa. Realizzai in un istante tutto quello che perdevo: lenzuola tirate del letto della sera, che erano la spasura di ogni mio bene, accanto alla guancia della balia, la pace delle sere vicino al fuoco, il muso dei cani, racconti delle serve, i capelli di mia madre teneri come le piume degli uccelli di passo. Caddi a terra. Qualcosa in me si ruppe; così avviene quando si tira troppo forte la corda del sonno e ci si leva all’improvviso. Mi ammalai. Cicale martellanti mi affaticavano come se il capo fosse la loro voliera. Non c’era una parte del corpo che non mi desse morsicature.

«Poi capii che tutto era già deciso. E in cuor mio mi arresi alla Luce. Cominciai a esercitarmi a poco a poco e vi scivolai dentro come ci si arrende al sonno. Non era la luce colorata, ma un biancore che poteva spingersi sino all’essenza, quando non si sente più bisogno del colore.
Allo stesso modo ci si affeziona al silenzio che produce una sua musica, un ondulato di acqua che naturaliter porta alla foce di un altro destino. Così guarii.
Decisero allora che ero pronta per partire».

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