Le reazioni dei lettori

Diverse le lettere giunte in redazione su questo tema. E anche sui giornali la discussione prosegue.

In seguito alla pubblicazione dell’articolo Il no svizzero ai minareti, di Michele Zanzucchi, abbiamo ricevuto diverse risposte dai lettori. Particolarmente significativa una lettera arrivata direttamente dalla Svizzera, che offre uno sguardo diretto sulla realtà elvetica e uno “esterno” sulle recenti diatribe italiane in tema di simboli religiosi.

 

«In Svizzera si è votato per un referendum che chiedeva la proibizione della costruzione di minareti. Ancora una volta (capita spesso purtroppo, nelle votazioni nazionali) mi sono trovato a votare dalla parte di coloro che poi risultano perdenti.Il risultato del referendum (il sì, sorprendentemente, ha vinto in maniera netta) è una sconfitta per la cultura del dialogo in cui mi riconosco. L’hanno sottolineato bene anche i vescovi svizzeri. È un cieco passo indietro nel percorso verso la fratellanza universale. Confido in Chi sa scrivere diritto anche su righe storte, perché, in un modo che a volte pare imperscrutabile, conduca l’umanità ad essere quella famiglia che, nella sua realtà più profonda, già è. 

A proposito di un altro argomento di cui si è parlato spesso ultimamente, i simboli religiosi e il crocifisso: credo che il crocifisso non sia solo un simbolo importante per i cristiani, ma che sia accettabile e importante anche dal punto di vista puramente umano. A condizione che sia capito.
Ora, quando un politico italiano (ministro), ergendosi a "difensore della civiltà cristiana", augura a quelli che vogliono far levare il crocifisso… che possano morire, allora siamo molto lontani non solo dal buon senso, ma soprattutto dal messaggio di Colui che, per evitare il male agli altri, ha sacrificato se stesso. Quale contraddizione più forte tra il Crocifisso (scritto con la maiuscola) e coloro che si ergono in questo modo a "difensori del cristianesimo"!
Gesù, innocente, è morto in croce perdonando chi lo uccideva. Penso che oggi preferirebbe farsi crocifiggere di nuovo, piuttosto che augurare la morte a chi la pensa diversamente da lui.
Fin quando i cristiani non daranno una testimonianza credibile di ciò che sta racchiuso nel loro nome, anche la croce non sarà capita per il messaggio che contiene.
In questo senso il Crocifisso va rispettato quando è appeso alla parete, ma prima ancora va rispettato nel nostro prossimo. Anche in chi la pensa diversamente da noi o professa un’altra fede. E va riconosciuto anche in noi stessi, quando ci è richiesto un sacrificio o una rinuncia.
Si rasenta poi il ridicolo quando altri politici italiani, sulla scia della votazione svizzera, propongono di inserire la croce nella bandiera italiana, proprio nel momento in cui essi stessi fanno di tutto per sbarazzarsi degli stranieri. Ricordo sommessamente che anche Gesù è stato straniero. Quando la croce diventa simbolo di esclusione, e non di universalità come in realtà è, allora ha smarrito il proprio senso.
Tanto più grande, importante e urgente la sfida di chi, benché indegnamente, cerca di vivere il Vangelo e di seguire Gesù
».

 

Andrea Paganini – Svizzera

 

Segnaliamo inoltre un articolo di Piero Coda apparso su La Repubblica del 3 dicembre a questo proposito. Il preside dell’Istituto universitario Sophia richiama l’attenzione sulla crescente superficialità con cui viene affrontata la coabitazione tra popoli e religioni, a causa «dell’assenza, a livello pubblico, di un dialogo serio e responsabile, capace di aiutarci di andare al di là della reattività immediata». Il che «segnala un’insuperabile contraddizione: quella di chi vuole godere tutti i benefici della globalizzazione a livello materiale, senza aprirsi al rischio ma anche al guadagno culturale che essa può produrre». Certo occorre essere consapevoli che la convivenza non è scontata né facile, «ma è questa la frontiera culturale che dobbiamo attraversare insieme. Aiutandoci gli uni gli altri, con apertura e insieme con rigore, a disinnescare ogni forma fondamentalista e omologatrice», senza arrivare tuttavia ad una sorta di buonismo che «mettendo sullo stesso piano tutte le convinzioni, le rende in realtà indifferenti l’una verso l’altra». Solo così sarà possibile arrivare ad una convivenza che «non è abdicare alla propria identità né sognare un’utopia, ma testimoniare con coerenza e senza sconti la propria apertura verso Dio e responsabilità verso l’altro».

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