Le prediche dipinte

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Imuri, allora, parlavano. Parlavano, nel Trecento e nel Quattrocento, con la voce degli affreschi che li ricoprivano: opere progettate con studiata attenzione e realizzate con appassionata minuzia: create per conferire il senso dell’eterno e quindi, almeno nell’intenzione dell’artista, fatte per durare in eterno. Parlano anche oggi i muri delle nostre città. Con la voce dei manifesti pubblicitari, creati per invogliare il consumo immediato, quindi, anche nell’intenzione dell’artista, realizzati per essere in breve tempo rimpiazzati da nuovi manifesti. Parlavano allora, i predicatori nelle chiese. E riuscivano spesso a comunicare efficacemente con il grande pubblico. Anche perché, quando parlavano, rievocavano nei loro sermoni gli affreschi, i mosaici e le pitture delle chiese e dei palazzi pubblici, che erano parte dell’esperienza quotidiana concreta dei cittadini. Si rifacevano nelle omelie a quei dipinti che riproducevano scene della Scrittura, o che ricordavano il giudizio eterno che spetta a ciascuno dopo la morte. Raramente, ai nostri giorni, sono le prediche tradizionali a comunicare efficacemente col grande pubblico; questo lo fa la televisione; anche se, soprattutto negli Usa, tanti predicatori televisivi stanno avendo enorme successo. Il gioco è più o meno identico a quello di allora – immagini e parole che s’intersecano e si rievocano a vicenda -; ma è un gioco che ora avviene tutto lì, nel piccolo schermo. E che i manifesti pubblicitari incollati ai muri delle strade ci ripropongono. “La immaginativa nostra così atta a ricevere tali impressioni, non èdubbio non ci essere instrumento più forte o più efficace a ciò delle immagini fatte al vivo, che quasi violentano i sensi incauti”: non c’è che dire; erano ben consapevoli del potere delle immagini i predicatori dell’epoca. Sapevano che l’immagine può colpire così fortemente l’occhio interiore del pubblico da diventare un mezzo di convincimento potente. Ma anche pericoloso, che cercavano perciò di guidare con la loro parola. La quale, intrecciandosi a sua volta con l’immagine, ne riusciva arricchita, fino ad assumere una forza straordinaria. Le parole del predicatore erano perciò studiate ad arte, nelle omelie antiche, per guidare la ricezione del dipinto; parole ed immagini si sostenevano a vicenda, concorrendo così a creare nell’as c o l t a t o r e un’immagine interiore che poteva poi crescere ed alimentarsi da se stessa. La civiltà dell’immagine e la potenza del “multimediale” non sono quindi prerogativa dei nostri giorni. La loro potenzialità era già ben ampiamente compresa ed utilizzata nei sermoni edificanti di sei o sette secoli fa. A riportarci ai tempi delle prediche dipinte, è un libro di Lina Bolzoni, di recente in libreria: La rete delle immagini (Einaudi). La Bolzoni è docente alla Normale di Pisa, titolare di quella cattedra di letteratura che fu già del Carducci, e da un paio di anni dirige il “Centro per l’elaborazione informatica di parole e immagini nella tradizione letteraria”. Nella sua appassionata ricerca ci guida in un viaggio che inizia a Pisa dove l’impressionante ciclo di affreschi del Trionfo della Morte nel cimitero monumentale si rapportava alle prediche dei domenicani del convento di santa Caterina – e termina a Siena. Un viaggio illuminato dalla poesia di Dante, dalle sublimi liriche figurative di Jacopone da Todi, e dalle interpretazioni del passato del futuro fatte dal monaco calabrese Gioacchino da Fiore. Ma soprattutto si sofferma su Siena per la grande opera lì compiuta dal francescano san Bernardino che, predicando nella cattedrale o da un pulpito allestito in piazza del Campo, guidava l’uditore a percepire le immagini degli affreschi religiosicittadini secondo l’ottica da lui costruita, per trasmettere insegnamenti morali e operare conversioni a una vita più onesta e più spirituale. Con Bernardino i percorsi cittadini diventavano così il naturale teatro nel quale continuava l’azione edificatrice dei suoi sermoni. Scatta automaticamente il paragone con il nostro tempo. Nel quale lo spettacolo multimediale, allora monopolio del clero, è di quasi esclusivo appannaggio dei mezzi di comunicazione televisivi e informatici. A quei tempi lo scopo era plasmare l’interiorità degli ascoltatori affinché ricordassero l’eternità e l’Eterno, e modellassero di conseguenza la loro vita secondo questa prospettiva. Era quindi necessario che le immagini venissero ricordate. Che formassero un substrato nella memoria, un codice interiore che influisce sull’intelletto, in grado di agire sulle scelte e sulla volontà. Oggi la prospettiva è diversa, anche se il potere delle immagini, le passioni che riescono a suscitare, le reazioni che provocano, anche fisiche, è identico. La finalità però è cambiata; è innanzitutto mercantile: l’immagine serve per proporre un prodotto. È costruita quindi per essere in fretta dimenticata, ma anche per creare nel substrato interiore dello spettatore la voglia di assaporarne una nuova, che porta con sé ovviamente un nuovo prodotto. L’immagine trasmessa può essere a volta – e ne facciamo esperienza in tanti programmi televisivi – così sciocca e banale da essere facilmente criticata. Ma intanto ha aperto il suo percorso dentro di noi, perché sfugge alla ragione, per essere accettata dal regno della passione e della emotività. Purtroppo, tritati da questo meccanismo, i giudizi morali che si emettono, invece di essere improntati secondo i parametri dell’eternità, perdono sempre più di valore sino ad accasciarsi in una misera nullità. Così, un salutare bagno nel passato, come quello che ci propone la Bolzoni, può essere utile per destarci dal torpore televisivo.

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