Le occasioni del Festival Verdi

¦ Abituati a festival monografici filologici o a rappresentazioni ingessate, udire e vedere Rigoletto e Giovanna d’Arco al Regio fa l’effetto d’un soffio di vita rigenerante. Pubblico di ogni età, caloroso, puntuale, e la città che non segue il Festival in modo distaccato (come può accadere), ma vivo. Quante volte si è ascoltato il Rigoletto. Il buffone deforme e padre appassionato, lo scontro col destino – la maledizione -, la sua sconfitta coi potenti, ci scuote nella sua pessimistica verità. Rigoletto, anno 1851, è creatura enorme, ambivalente come è ogni uomo e la vita: lacerata e unitaria, violenta e mite, tenera e cupa. Rigoletto è ognuno di noi. Posto di fronte alla scelta della vendetta sull’effimero Duca di Mantova che gli seduce la figlia, rifiuta il perdono. Perde la battaglia. Ma, almeno, ha lottato. Su questa vicenda di sapore scespiriano, pur se tratta da Hugo, s’innesta una musica dove la parola pianto scorre pressoché dall’inizio alla fine con momenti drammatici a tensione elevatissima. Il dolore, in fondo, è ciò che redime Rigoletto, e l’uomo. Lavoro, se non il più alto, certo il più originale di Verdi, quest’opera ha bisogno di un protagonista capace di creare ogni volta il personaggio. Leo Nucci, baritono di lungo corso, si regala con generosità, ritraendo un Rigoletto fiero e forte, in contrasto con la voce argentina del Duca (un promettente Francesco Decurto), una Gilda, figlia non solo angelicata ma decisa (Desirée Rancatore) e lo Sparafucile di un Marco Spotti tenebroso e robusto in voce. Se non fosse che la direzione, pur ricercando colori orchestrali (le viole…), di Massimo Zanetti tende talvolta a coprire le voci, la resa musicale sarebbe quasi perfetta. Anche perché la regia di Stefano Vizioli è equilibrata, accattivante l’allestimento di Samaritani che si conferma, con le sue citazioni tra il classico e il rinascimentale, realistico ed elegante. Nella giovanile (1845), discontinua Giovanna d’Arco – improbabile eroina che anzichè sul rogo, muore in battaglia, secondo la logica illogica del melodramma – stupisce la direzione di Bruno Bartoletti che rivela alcune finezze nell’orchestra e nel personaggio – una Traviata ante litteram -, ottenendo suoni pastosi (l’oboe), accompagnamenti morbidi e pacati effetti bandistici. Così la regia lineare di Gabriele Lavia – sullo sfondo di uno scenario risorgimentale, dietro cui si svolgevano i singoli quadri con i costumi sontuosi, molto cinematografici, di Andrea Viotti – non forza il testo, rispetta la musica e rende comprensibile l’intricata vicenda: qui, stranamente, il cattivo è il padre, figura tipica del teatro verdiano che spesso sbaglia ed è costretto a pentirsi. Verdi inconsciamente ripensa al proprio burrascoso rapporto col padre Carlo? Chissà. Il rapporto tra arte e vita è sempre così fluido.

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