Le mangiatoie bucate

Natale precario, drammatico, tragico. Piccola mappa incompleta delle sofferenze del pianeta in tempo di feste

Arrivano come ogni anno le renne, Babbo Natale, l’abete, il presepe, i pastori, il Bambinello. Ma non dappertutto: nelle strade della Cina, Marry Christmas è il periodo delle compere e delle feste in famiglia, grandi luminarie ma… «hanno sloggiato Gesù». Già pensiamo ai regalini e alle abbuffate annunciate. Ci sentiamo vagamente meglio disposti verso il prossimo, per semplice abitudine forse. Passate le feste, comunque, gabbato lo santo.

Ma si calcola che nel nostro pianeta Terra, quello ai cui abitanti Jovanotti ha augurato buone feste (non l’ha fatto a quelli degli altri pianeti), più di un terzo della popolazione vive in condizioni precarie, drammatiche o tragiche. Per esso il Natale non potrà essere una ricorrenza spensierata. Non lo sarà per i fedeli cristiani, ma ci sono anche musulmani, che si sono rifugiati nella parrocchia della Sacra Famiglia, a Gaza, che sono nel mirino dei cecchini israeliani: qualche giorno fa hanno ucciso una madre con la figlia, in un atto che il papa stesso ha definito “terrorismo”. Giorni di tragedia prolungata anche per gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, e per i loro familiari, angosciati che i loro cari siano ammazzati dai nemici palestinesi, ma anche, non è detto, persino dal fuoco amico.

Natale di paura anche per gli abitanti della città e della regione di Idlib, nella Siria nord-occidentale, che si trovano da 12 anni sotto il fuoco di una serie assai lunga di eserciti (sicuramente quelli siriano e turco, ma non solo) e di milizie più o meno terroristiche. Soffrono per morti e distruzioni anche in uno Yemen che dal 2014 vive una guerra che è di aggressione esterna, ma anche intestina, e che ora si mescola con la crisi della Striscia di Gaza.

Soffrono gli sciiti che sono maggioranza in Bahrein, ma che sono schiacciati dalla minoranza sunnita che occupa ogni spazio di potere. Soffrono le badanti e le donne di servizio filippine o etiopi che patiscono ogni sorta di soprusi e abusi in Kuwait, in Arabia Saudita e in altri Paesi della Penisola arabica. Come vivono nell’incertezza i lavoratori indiani, pakistani e del Bangladesh che tirano su in condizioni estreme i grattacieli degli Emirati e dei vicini.

Al di là del Golfo Persico i giovani contestatori del regime degli ayatollah rischiano la prigione e la morte, mentre dall’altra parte, al di là del Mar Rosso, si combatte, si muore, si resta feriti, si deve migrare, si perde la casa: in Eritrea, in Etiopia, in Somalia, in Sudan e in Sudan del sud, per guerre, terrorismi, micro-conflitti locali, dittature, diatribe etniche… E come dimenticare poco più in là il Sahara e il Sahel, dove si muore per terrorismo, ma anche per i cambiamenti climatici, per le vendette etniche e per le migrazioni verso nord, verso la nostra Europa, anche per carestie e per mancanza di approvvigionamento idrico.

A questo proposito, non possiamo non pensare ai migranti che cercano di passare in Europa, per l’imbuto del Niger (già di per sé attraversato da tensioni interne non di poco conto), verso la Libia e l’Algeria (le vecchie rotte), ma ora anche verso Marocco, Tunisia ed Egitto, cioè verso l’intero Mediterraneo meridionale. Forse le loro traversie sono le peggiori che si possano immaginare, tra mercanti senza scrupoli, militari corrotti, carcerieri spietati… E poi la traversata, un terno al lotto, col rischio di morire a un passo dalla meta, colpiti in partenza dal fuoco delle guardie costiere, insidiati dalle tempeste in mezzo al mare, dalle difficoltà di approdo, dalle precarie condizioni nei centri di accoglienza (più o meno accoglienza, e fino a quando ci saranno?), con la prospettiva per alcuni di morire di freddo cercando di scavalcare le Alpi.

E come dimenticare le popolazioni del Sahara meridionale, in guerra col Marocco da più di 50 anni? E la Liberia di Weah? E la Guinea? E il Gambia? E Boko Haram? Mi rendo conto che un articolo non basta per fare la conta, semplicemente menzionandole, delle sofferenze natalizie che colpiscono un po’ ovunque. Volevo pure parlare delle violenze e delle tensioni in Guyana, degli stermini di popolazioni indigene in Amazzonia, della criminalità omicida in Honduras e Salvador, della povertà endemica degli Stati Uniti (eh sì, lì si muore non avendo i soldi per farsi curare dal sistema privato), del Myanmar e dei suoi innumerevoli campi profughi e del giro di vite della dittatura, e degli aborigeni australiani che non hanno ancora pienamente riconosciuti i loro diritti. Servirebbe un’enciclopedia. Anche per raccontare le violenze di casa nostra, i femminicidi e le violenze dei maschi che non sanno accettare la parità di genere, dei disabili e dei vecchi abbandonati nelle Rsa e nelle altre istituzioni preposte, dei tossicomani, siamo il Paese europeo che consuma più cocaina, oppiacei e droghe sintetiche. Un Natale per giunta denatalizzato.

Le mangiatoie di questo Natale bucate, perforate dalle pallottole, sono tante, troppe, senza soluzioni apparenti, senza paglia, senza nemmeno il calore del fiato del bue e dell’asinello, senza angeli svolazzanti e pastorelli cantanti, senza l’affetto di una qualunque madonna o di un qualunque sangiuseppe. Abbandonati senza nemmeno una croce su cui aggrapparsi. Buon Natale, anche senza l’aggettivo, anche senza il nome. Un abbraccio silenzioso.

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