Le donne del Tinku Kamayo

«Dio esiste, l’ho visto tra voi!». Un atelier di filatrici di lana ai  piedi delle Ande.
Donne di Tinku

Tinku Kamayo in lingua quechua significa “insieme per lavorare”. È il nome di un atelier di filatrici di lana di pecora e di lama di Santa Maria di Catamarca. Siamo nel Nord argentino, nella pre-cordigliera a ridosso della maestosa catena delle Ande. E più precisamente nella zona conosciuta come valli calchaquí, dal nome delle popolazioni che le abitarono. Opposero una strenua resistenza agli invasori spagnoli che, non potendo aver ragione di loro, decisero che l’unico modo per dominarle consisteva nello smembrarle: i genitori da una parte, i nonni da un’altra e i figli da un’altra ancora.

Ma il Tinku è molto più di un gruppo di donne unite da un’iniziativa economica. Se chi le visita (e sono ormai tanti durante l’anno) vuol comprendere il senso di ciò che esse raccontano, deve cambiare prospettiva, almeno per un momento. Pertanto, sarà meglio mettere a tacere la propria razionalità mentre Margarita e le sue amiche raccontano la storia dell’atelier, per lasciarsi invadere dalla meraviglia e sconcertare da una semplicità e una autenticità a tutta prova.

 

L’iniziativa sorse in pieno 2001, durante la crisi che mise in ginocchio il Paese, quando la gente cercava disperatamente come sfamare i propri figli. Specialmente le donne, così sensibili al dramma familiare di non aver niente con cui riempire le pentole. Margarita si sentì interpellata da quella circostanza e insieme ad alcune amiche decise di cominciare a filare la lana per arrotondare le magre entrate. Un lavoro che suscitava rigetto, in quanto espressione della cultura calchaquí che da secoli, dal tempo dei conquistador spagnoli, si cercò di sradicare. Lavorare la lana? Cosa da indios! I riti ancestrali? Eresia! I cibi tipici, l’artigianato, le danze, «tutto ciò che era collegato alla cultura indigena era brutto e mal considerato», aggiunge Margarita. «E poi: donne al lavoro? Ma se la donna serve solo per allevare i figli e per servire il marito!». Questa era l’opinione corrente nelle vallate. Furono queste le “montagne” che Margarita e le altre dovettero superare per far sorgere l’atelier. All’inizio non avevano quasi niente, appena un ambiente, peraltro freddo, preso in prestito, dove usavano mattoni come sedie.

 

Margarita e le sue compagne ricordano tutto questo mentre siamo seduti facendo circolare tra noi il mate, la tipica infusione di queste regioni del Cono Sud, che si aspira da una cannuccia metallica. Si tratta di una sequenza impressionante di piccoli e grandi fatti che parlano della loro fiducia in Dio, della fede nella sua provvidenza.

Potrebbero raccontare per ore e ore episodi che hanno il sapore dei fioretti francescani. Dall’arrivo del denaro per acquistare la sede attuale, alle macchine per cucire donate e trasportate fin lì per iniziativa di un signore di Buenos Aires (a mille chilometri di distanza). O di quel vicino che un giorno, commosso, consegnò loro una busta; aveva visto un documentario su Tinku Kamayo emesso da un canale televisivo messicano: «Ma come, sono un vostro vicino e non so niente di voi!». Nella busta c’era una somma di denaro, giusto il necessario per dipingere la facciata e gli ambienti dell’atelier.

 

Per queste donne la vita quotidiana è un continuo abbandonarsi nelle mani di Dio, scaricare in lui i pesi e le afflizioni, per poi scoprire che sempre arriva il necessario. Né più, né meno. Come quel giorno in cui nel gruppo si commentò che ad alcune di loro mancavano le scarpe. Pochi giorni dopo arriva un visitatore che, quasi temendo di arrecare un’offesa, annunciò di aver portato qualcosa per loro: varie borse di scarpe. «Ma Dio come ha fatto a sapere i nostri numeri? – commenta oggi Margarita quasi parlando tra sé e sé –. Perché ce n’era un paio per ciascuna!».

Tinku Kamayo è anche un ambito di integrazione e di accoglienza. Qui le donne riscoprono la loro dignità, superano problemi anche duri, come la violenza familiare; apprendono a dialogare, ad ascoltarsi, a volersi bene e ad amare gli altri. «Non veniamo certo per farci ricche – commentano –, ma la ricchezza che troviamo è un’altra». Molte possono così affrontare le loro problematiche e spesso anche superarle. Oggi i loro mariti non sono più restii ad accompagnarle in questa esperienza.

 

Quanto guadagnano nel commerciare i capi di lana che lavorano serve per integrare il bilancio della famiglia. Ma non è solo questione di ricevere: Tinku è una scuola del dare, perché ricevono e danno, tornano a ricevere e danno di nuovo… È stato così quando una donna venuta da lontano si fermò per un lungo periodo presso di loro, per apprendere a prendersi cura delle figlie. Quello spazio di affetto e di ascolto alla mamma fu importante per le due bimbe. Ed anche in questo caso, immancabile, intervenne la provvidenza. Un giorno si resero conto che stava finendo il latte per la merenda. Quel poco che c’era lo si condivideva, ma erano le ultime gocce. Ancora una volta chiesero a Dio e ricevettero: una signora proveniente dal Lussemburgo, arrivata con un bus di visitatori venuti a conoscere la loro esperienza, si presentò portando scatole di latte in polvere, biscotti, caffè solubile… «Ma chi le aveva detto che ne avevamo proprio bisogno?», si domanda sempre Margarita.

 

Un giorno, durante un funerale, Margarita passò a fianco di una donna che a bruciapelo sbottò: «Mi dica, per favore, mi dica come fa a dire che Dio esiste!!». Lei non sapeva cosa risponderle. «L’altro giorno l’ho ascoltata per radio – riprese la donna riferendosi al programma dove era stata invitata – e lei ha detto che Dio esiste. Io proprio in quel momento stavo per farla finita; mi hanno fermato le sue parole. Cosa vuol dire che Dio esiste?». Margarita le rispose invitandola a visitare il Tinku: «Venga e veda». La donna si fermò tra loro due settimane, recandosi all’atelier tutti i giorni, lavorando, parlando, ascoltando ciascuna. «Adesso capisco che è vero: Dio esiste, io l’ho visto qui tra voi», fu la sua conclusione.

 

Le due ore della mia visita passano in fretta. Le donne mi fanno strada perché conosca ogni angolo dell’ateliere quando hanno finito di mostrarmi gli ambienti, non senza una punta di orgoglio, mi conducono fino al salone dove si svolgerà un rituale quechua. Infatti, hanno deciso che devo essere “segnalato”. Per evitare dubbi in merito a chi fosse proprietario degli animali, la loro ricchezza di contadini, questi venivano segnalati con un taglio a una delle orecchie, ad esempio. Il tutto, ovviamente, alla presenza della Pacha Mama, la Madre Terra, ossia tutto il creato, secondo la cosmovisione delle culture andine. Pertanto mi consegnano prima una collanina di lana, gesto molto meno cruento che tagliarmi un orecchio, segno della mia appartenenza, poi mi fanno dono di due pupazzetti di lana, segno della gratuità, del dono che non deve mai mancare, ed anche di un ramoscello di foglie, simbolo della Pacha Mama, che viene ricevuta suonando la caja, il tipico tamburello locale.

 

La leggenda dice che così la persona resta incantata da questi posti e presto o tardi ritorna.

Ringrazio commosso. Queste due ore sono state per me un dono enorme. Prima di salire sull’auto che mi viene a prendere, contemplo la facciata dell’atelier. Si direbbe che è una costruzione povera, umile. Ma ho l’impressione di essere stato in una cattedrale. 

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