Le domande della tigre di Baghdad

Il testo di Rajiv Joseph mette in scena la belva uccisa da un soldato Usa, che vaga come uno spettro nella capitale irachena devastata dall'invasione del 2003
Tigre Bagdad

Lo spunto della commedia nacque a Rajiv Joseph nel 2003 dalla lettura di una piccola notizia, vera, su una tigre uccisa allo zoo di Baghdad da dei soldati Usa. Inizialmente la stesura si esauriva in dieci minuti, ma, rimettendoci mano tre anni dopo l’autore ne ha fatto un componimento di due ore che interseca la favola di Esopo e le ghost-story, il dramma scespiriano Macbeth e il film Good Morning Vietnam.Più contemporaneo oggi che all’epocaUna tigre del Bengala allo zoo di Baghdad (finalista al Premio Pulitzer 2010)pone questioni etiche, esistenziali. Ci fa riflettere sorridendo e colpendoci in faccia, ponendo domande su vita e morte, su Dio, catapultandoci nella storia recente dei nostri giorni, di guerre attuali e non ancora dimenticate, e dei suoi effetti drammatici su uomini e popoli, nella fattispecie sugli stessi iracheni e su tanta gente tornata fisicamente e mentalmente danneggiata dall'Iraq.

 

Il testo del quarantunenne indo-americano mette in scena una tigre che viene uccisa da uno dei due commilitoni Usa incaricati di farle la guardia, per poi vagare come uno spettro nella capitale irachena devastata dall'invasione statunitense del 2003. Il fantasma della tigre apparirà, ossessionandolo, al soldato che l'ha uccisa, e risvegliando a poco a poco le coscienze di tutti i protagonisti di questo dramma dell'assurdo. Dramma che coinvolge un giardiniere-artista improvvisatosi traduttore per l'esercito invasore, a cui appare, invece, il fantasma di Uday Hussein – che gli ha ucciso la sorella – che se ne in va in giro con la testa del fratello Usay in un sacchetto. E, ancora, l’altro soldato yankee a cui la tigre aveva mangiato una mano, che vuole recuperare la pistola d’oro rubata ai figli uccisi di Saddamcosì da poter iniziare una nuova vita al ritorno negli Stati Uniti vendendola insieme a un water trafugato, anch’esso d’oro.

 

Va reso merito a Luca Barbareschi, da sempre attento alla drammaturgia americana (a lui si deve aver portato in Italia quella di David Mamet), averci fatto conoscere questo inedito, col quale ha aperto la nuova gestione del Teatro Eliseo sotto la sua direzione. E che lo vede protagonista, oltre che regista, in un ruolo che sembra scritto per lui. Il felino-filosofo che egli impersona ha la parvenza di un clochard, sporco e con barba e capelli lunghi, affamato, dapprima ingabbiato poi vagabondo, sciorinare parole, tra indignazione e sarcasmo, sull’uomo e le sue crudeltà, che chiamano in causa Dio ponendogli domande scottanti.

 

Una sorta di fool scespiriano che può permettersi di dire cose vere, pensieri ad alta voce tanto nessuno gli crede. Lo zoo abbandonato e distrutto nel quale si aggira con, infine, ifantasmi dei morti che si confondono con i vivi, diventa metafora della condizione umana relegando gli uomini a bestie e, viceversa, queste a più umane, inclini alla ragione e alla pietà. Il ritmo della regia è serrato, tra realtà e flashback. Forse si insiste troppo, nel linguaggio, su turpiloqui, e a Barbareschi si perdona qualche lieve caduta gigionesca. Ma la resa dello spettacolo – impaginato in una scenografia mediorientale, con sabbia e silhouette di giraffe ed elefanti che trascolorano in un eden sognato – è encomiabile. Alla quale contribuiscono gli eccellenti attori, tra cui Andrea Bosca,Denis Fasolo,Hossein Taheri, eMarouane Zotti,Sabrie Khamiss,Nadia Kibout.

 

“Una tigre del Bengala allo zoo di Baghdad”, Rajiv Joseph, regia di Luca Barbareschi, sceneMassimiliano Nocente,costumiAndrea Viotti, luci Iuraj Saleri, musiche Marco Zurzolo.Al Teatro Eliseo di Roma fino all’11 ottobre.

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