L’accountability e l’Unione Europea

Una realtà distante dai bisogni dei suoi abitanti, con una complessa macchina decisionale, senza una reale possibilità di controllo dal basso. Così è percepita l’Unione Europea oggi dai suoi cittadini. Ma è proprio così? Anna Ascani in Accountability, la virtù della politica democratica (Città Nuova, 2014) fa chiarezza sull’argomento.
Accountability

La percezione diffusa di una distanza eccessiva dalle esi­genze effettive dei cittadini e di una conseguente incapacità di interpretare i bisogni dei popoli che nell’Europa unita dovreb­bero riconoscersi è, con tutta probabilità, la ragione più pro­fonda del ritardo col quale si va costruendo l’Unione politica e costituisce, al contempo, la radice del deficit di accountabi­lity che ci interessa qui analizzare. […] Per analizzare a fondo le possibilità di implementazione dell’accountability all’interno delle istituzioni comunitarie si deve prima di tutto fare un breve cenno al loro funzionamento. Le quattro principali istituzioni decisionali (quelle che costitui­scono il cosiddetto “quadrilatero istituzionale”) sono (secondo l’ordine stabilito dal Trattato costituzionale): a) il Parlamento europeo, eletto direttamente dai cittadini ogni cinque anni, che esercita un controllo democratico su tutte le istituzioni dell’U­nione (ha, ad esempio, il potere di approvare o respingere la nomina dei commissari e il diritto di censurare collettivamente la Commissione) e condivide col Consiglio il potere di appro­vazione del bilancio dell’Unione; b) il Consiglio dell’Unione Europea, che rappresenta gli Stati membri, coordina le politi­che economiche generali, conclude gli accordi internazionali tra l’Unione e uno o più Stati o organizzazioni internazionali, elabora la politica estera e di sicurezza comune, coordina la cooperazione giudiziaria e di polizia e ha nove possibili con­figurazioni (Ecofin; Giustizia e affari interni; Affari generali e relazioni esterne; Occupazione, politica sociale, salute e tutela dei consumatori; Concorrenza; Trasporti, telecomunicazioni ed energia; Agricoltura e pesca; Ambiente; Istruzione, gioventù e cultura); c) la Commissione europea (i cui membri sono nomi­nati dai rispettivi governi nazionali, d’accordo con il presidente designato, a sua volta scelto dal Consiglio, e restano in carica cinque anni), che ha il compito di prendere l’iniziativa legisla­tiva, poi sottoposta a Parlamento e Consiglio, e di difendere gli interessi generali dell’Unione; d) la Corte di Giustizia, che si compone di un giudice per ogni Stato membro e sorveglia sulla corretta applicazione del diritto comunitario.

A completare il quadro istituzionale vi sono poi il Comitato economico e socia­le, il Comitato delle regioni, la Corte dei Conti, la Banca Centra­le Europea, la Banca europea per gli investimenti e il Mediatore europeo. I documenti ufficiali, nonostante i diversi precedenti sto­rici, primo fra tutti la CEE, hanno cominciato a parlare di “Unione Europea” soltanto a partire dal Trattato di Maastricht del 1992, quel medesimo testo che ha introdotto nuove forme di cooperazione intergovernativa in materia di politica estera e di difesa (secondo pilastro) e di giustizia e affari interni (terzo pilastro). Col Trattato costituzionale s’è poi tentato di semplifi­care il sistema europeo, ripartendo le competenze tra gli organi comunitari e quelli nazionali.

È attraverso questo importante documento che viene definito il processo decisionale comuni­tario secondo le tre procedure fondamentali: consultazione (la proposta della Commissione viene trasmessa dal Consiglio al Parlamento, che esprime un parere e può formulare emenda­menti; la Commissione riesamina la proposta e può modificarla sulla base del parere del Parlamento; il Consiglio adotta quin­di l’atto, in linea generale, all’unanimità); codecisione (un atto può essere adottato soltanto in presenza di un accordo su uno stesso testo tra Parlamento europeo e Consiglio, in prima o se­conda lettura. In caso di disaccordo è previsto il ricorso a una procedura di conciliazione tra le due istituzioni in un comita­to apposito.

In ogni caso il Parlamento europeo può rigettare la proposta legislativa in ultima istanza. Il Consiglio delibera normalmente a maggioranza qualificata, salvo i casi in cui il Trattato prevede espressamente l’unanimità); parere conforme (implica che il Consiglio ottenga il consenso del Parlamento europeo a maggioranza assoluta dei suoi membri, affinché pos­sano essere prese alcune decisioni che rivestono particolare importanza. Il  Parlamento europeo ha facoltà di accettare o di respingere una proposta ma non può modificarla. In questi ca­si, il parere del Parlamento è obbligatorio e vincolante).

Da questa breve e non certo esauriente descrizione si evin­ce la complessità del processo decisionale e si comprende la ra­gione per la quale le istituzioni europee siano percepite dai non addetti ai lavori come un sistema difficilmente intellegibile, cosa che ingenera la diffidenza di quei cittadini che dovrebbero sen­tirsi in esse e da esse rappresentati. […]

Pare dunque che a coloro ai quali è stato affidato il go­verno delle istituzioni europee negli ultimi anni non sfuggisse affatto l’importanza della promozione di un senso d’apparte­nenza alla “casa comune” presso i cittadini d’Europa e della necessità, a tale fine, di rendere più efficienti ed efficaci i mec­canismi di accountability che sono indispensabili, come ab­biamo visto, a ogni democrazia che voglia dirsi tale. Occorre sottolineare che il livello di legittimazione formale delle istitu­zioni europee non può dirsi deficitario poiché in esse si trova­no, al contrario, sommate la legittimazione dal basso (elezione del Parlamento europeo), quella orizzontale (capi di stato e di governo e commissari europei) e quella processuale, cosa che riesce a rendere effettivo un sistema originale di checks and balances attraverso il cosiddetto “metodo comunitario”.

Tut­tavia a essere carente pare, invece, il livello di legittimazione sociale, la capacità, cioè, da parte dei cittadini, di riconoscersi nell’istituzione europea, di sentirsi rappresentati da ciò che av­viene a quel livello e non semplici destinatari di decisioni che si svolgono secondo logiche poco note e al di fuori della loro portata.  […]

Anche a livello europeo il fulcro della questione è costituito, infatti, da quella «tensione insolubile tra due desideri ugualmente razionali» di cui parla O’Donnell: «uno, che coloro che prendono le decisioni vinco­lanti per tutti lo facciano nella maniera più efficace […] e l’altro che esistano sufficienti controlli sui decisori per proteggermi dalle conseguenze seriamente nocive che potrebbero abbatter­si sui miei interessi e sulla mia persona». […]

Quali possibili soluzioni emergono dunque dalla disamina della questione della (percepita) mancanza di accountability a livello europeo? Non serve un’altra via di legittimazione formale, questo pare chiaro. Tuttavia rendere accountable i capi di Stato e di governo per ciò che essi dico­no e fanno in sede di Consiglio europeo potrebbe essere un buon passo in avanti. A ciò si somma l’esigenza di conferire un ruolo diverso nelle dinamiche degli Stati membri ai MEPs (Members of European Parliament), percepiti spesso solo come sovrannumerari dei singoli partiti politici nazionali di cui sono espressione. Vi è, infine, l’annosa questione della trasparenza, che richiederebbe una trattazione a sé. Basti qui dire che il de­ficit di rappresentanza si spiega anche in riferimento a una cer­ta opacità del processo decisionale, cui abbiamo accennato nel tentare di definire la complessità della struttura istituzionale europea. Per riavvicinare i cittadini a quel mondo così distante e così complesso, sarebbe opportuno aprire, almeno per un periodo e almeno in parte, i lavori del Consiglio europeo ai media nazionali, dando modo a un pubblico molto più ampio di quello degli addetti ai lavori di partecipare, seppure a di­stanza, a discussioni che riguardano molto da vicino i destini dei singoli Stati membri e, dunque, dei cittadini che li abitano e li animano.

In tal modo, si alimenterebbe quel circolo vir­tuoso tra politiche nazionali e politiche europee a cui abbiamo fatto accenno in precedenza. Ribaltando la prospettiva della riflessione di Majone, potremmo dire che il lato positivo della crisi (se ce n’è uno) è proprio l’aver reso visibile l’influenza che l’UE esercita sulle politiche economiche degli Stati nazionali e, di conseguenza, l’importanza di una rappresentanza forte e credibile in quella sede. Questo livello di pre-comprensione è molto prezioso e, se si allontanano i rischi di una deriva anti-europeista (resa probabile dall’emergere con forza di piccoli e grandi partiti che fanno in particolare della Germania, ritenu­ta responsabile della stretta dell’austerity, il principale obietti­vo polemico dei propri programmi), può essere fertile terreno per la costruzione di quegli Stati Uniti d’Europa che sono l’u­nica risposta possibile alla crisi, sia economica che della rap­presentanza. Ciò che a noi sembra di poter dire, al termine di questa breve disamina, è che non sarà possibile alcuna unione politica senza l’implementazione dei meccanismi di domanda, argomentazione/giustificazione e controllo che costituiscono, appunto, il core sense dell’accountability.

 

Anna Ascani, Accountability, la virtù della politica democratica (Città Nuova, 2014)

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