La Turandot di Ai Weiwei

Da stasera fino al 31 l’ultimo lavoro di Puccini al Teatro dell’Opera di Roma. Allestimento dell’immaginifico artista cinese.

Era un ragazzo quando fece la comparsa  nella Turandot con la regia di Zeffirelli a New York. Ora Ai Weiwei chiude il cerchio nella sua prima e ultima regia di un’opera e  prende tutto: regia, scene, costumi, video.

Meno male che lascia qualcosa anche alla direttrice ucraina, la brava, sicura e decisa Oksana Lyniv. Lei che ha l’accortezza di chiudere l’opera come l’ha lasciata Puccini alla morte nel 1924. Nessun finale aggiunto, né quello tradizionale di Alfano, né quello di Luciano Berio. Così, senza trionfalismi, si chiude con la morte di Liù, la piccola vittima dell’amore, sorella di Mimì e Butterfly.

Scelta azzeccata perché il dramma lirico in tre atti e cinque quadri dalla fiaba di Gozzi,  grandioso tremendo e magico – ma anche con il buffo trio dei tre mandarini, visione reinventata delle maschere nostrane –, merita di finire in una atmosfera di “dolce morte”. La gelida Turandot, timorosa dell’amore, vinta da Calaf si donerà a lui?. Non si sa. Liù comunque mostra cosa sia per lei l’amore: dare la vita.

La trama dell’opera è troppo  nota per parlarne ancora, ma è certo che questo lavoro è di una bellezza alta e metallica con echi ben visibili di Mahler, Stravinsky, Debussy e altri contemporanei. Senza rinunciare ad essere sé stesso, Puccini indaga si direbbe psicanaliticamente sul sentimento, dell’uomo e della donna “fatale”, nella lotta tra ragione, paura e sensibilità.

Ai Weiwei, dunque. La scenografia è imponente, visionaria, con video di guerra attuale, di sterminio, di violenza ed emigrazione che attualizzano lo scontro tra Calaf e Turandot come conflitto tra culture e nazioni.  E se nel primo atto primeggiano immagini fosforescenti, una quantità  di luci, movimenti e suggestioni tra Oriente e Occidente, nel secondo l’anima lunare cinese pallida e gelida riemerge come una poesia filiforme che rimanda a dipinti cino-giapponesi delicati e forti.

È affascinante questo allestimento: i costumi sono ricchi e fantasiosi, i movimenti coreografici gentili e opportuni secondo la musica, le scene passano dal descrittivo all’onirico.

Quest’ultimo termine sembra quello adatto a definire il lavoro onnicomprensivo di Ai Weiwei. Sogno:  di amore negato  e possibile-impossibile, di pace-violenza, sempre sotto una luce implacabile.

Si diceva della direzione: seria, scrupolosa, gesto semplice e chiaro, colto dall’orchestra. Molto buono il secondo cast: la rivelazione è il soprano  polacco Adriana Ferfecka, Liù perfetta, tecnica giusta; il tenore italo-americano Angelo Villari è un Calaf dallo squillo potente; intenso e nobile il Timur di Marco Spotti; voce implacabile quella del soprano Ewa Vesin, Turandot altera in un costume da farfalla candida, superbarocco come quello degli altri interpreti.

Bisogna vederla e ascoltarla – giovedì 24 su Rai 5 – questa Turandot dalla musica stupenda che apre e chiude un’epoca del melodramma italiano, e non solo. Come pure la mostra di Ai Weiwei alle Terme di Diocleziano. Da non perdere.

Mario Dal Bello

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