La sfida dell’Iran e le sanzioni Usa

Teheran cerca di superare l’embargo decretato dagli Stati Uniti commerciando con altri grandi attori mondiali, come Russia, Cina e India, ma anche più piccoli, come l’Iraq.  

Il 10 marzo 2019 Hassan Rohani è arrivato a Baghdad per una visita ufficiale di tre giorni: è il primo capo di Stato iraniano ad aver messo piede in Iraq. E per di più è stato invitato dal presidente iracheno, il curdo Barham Salih, in carica da ottobre 2018. È un’aperta sfida, per quanto politically correct, alla minaccia di Donald Trump su quanti aiuteranno Teheran ad aggirare le sanzioni Usa. Questi «Non potranno più concludere affari con gli Stati Uniti» (“will not be doing business with the Usa”), aveva sentenziato il presidente statunitense.

Lo scopo evidente e dichiarato del viaggio di Rohani in Iraq è proprio quello di sviluppare gli scambi con Baghdad per ridurre gli effetti delle pesanti sanzioni statunitensi all’Iran. Oltre al presidente Salih, Rohani ha incontrato il nuovo primo ministro iracheno, lo sciita moderato Abdel Abdul Mehdi, e numerosi esponenti politici e leader religiosi sciiti. Sebbene l’Iraq abbia accumulato verso l’Iran, negli ultimi anni, debiti per due miliardi di dollari, soprattutto per forniture di energia elettrica e gas (200 milioni di dollari al mese), con i nuovi accordi sottoscritti fra i due Paesi l’interscambio commerciale previsto si aggirerà intorno ai 20 miliardi di dollari l’anno.

Le sanzioni Usa, che l’Iran cerca di aggirare, non sono una novità inventata da Trump. In un modo o nell’altro sono in vigore con poche interruzioni da 40 anni, da quando cioè la monarchia filo-occidentale dei Palhavi è stata soppiantata dalla rivoluzione kohmeinista e dalla repubblica islamica degli ayatollah. 40 anni di sanzioni senza crollare, significa che gli iraniani avranno anche notevoli problemi economici e innegabili tensioni interne, politiche e per i diritti umani, ma se c’è qualcosa che li unisce è senza dubbio la rocciosa e indignata opposizione a quelli che percepiscono come tentativi statunitensi di colonizzarli a ogni costo.

Trump da anni dipinge l’Iran con i toni del nemico della democrazia, dello Stato terrorista per eccellenza, dell’infido costruttore di missili nucleari. Ma è difficile non costatare che questa retorica criminalizzante, che invade i media mondiali, appoggia anche in modo interessato e incondizionato le pressioni della leadership israeliana e le mire saudite, ed è rivolta contro un Paese in cui si trovano alcuni tra i più grandi giacimenti di petrolio del pianeta, stimati come produttivi agli attuali livelli di estrazione per oltre 70 anni. L’Iran è inoltre il secondo produttore mondiale di gas naturale, dopo la Russia, con 28 trilioni di metri cubi di riserve stimate, circa il 18% dell’intera riserva mondiale. Senza poi considerare che in Iran si trovano i più importanti giacimenti al mondo di zinco, oltre ad altre numerose e importanti risorse minerarie. E acqua, di cui la regione ha un immenso bisogno.

Naturalmente c’è anche chi è molto interessato a commerciare con gli iraniani, in barba alle pretese statunitensi. Primi fra gli altri Russia, Cina e India, e poi gli altri alleati di Teheran come Siria e Iraq, e anche per motivi loro, ma da non sottovalutare, la Turchia e il piccolo e potente Qatar. Bastano questi pochi cenni per intuire che la retorica anti-iraniana della Casa Bianca ha poco o nulla a che fare con questioni religiose o diritti umani negati. Le fake-news ci sommergono. È una «guerra di narrazioni», come la chiama il noto giornalista Fulvio Scaglione.

Nell’Iran degli ayatollah, il secondo Paese al mondo per numero di esecuzioni capitali dopo la Cina, non ci sono solo giudici fanatici che condannano un’avvocata per i diritti civili a 38 anni di carcere e 148 frustate. Ma neppure negli Usa ci sono solo politicanti che gettano fango su tutto e tutti, sugli iraniani come sui latino-americani che premono sul confine messicano degli Usa o sul clima. Ci sarebbe un enorme bisogno di fiducia per affrontare i veri problemi, non di fango e di odio; c’è bisogno di dialogo, non di vittorie sul nemico.

 

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