La rabbia e il coraggio

Il movimento europeo “Contro la dittatura della finanza” si dà appuntamento a Roma il 15 ottobre, chiedendo un cambiamento di prospettiva per uscire dalla crisi. Cosa vogliono i manifestanti? Cerchiamo di capirlo
indignados

«La speranza ha due figli bellissimi: la rabbia, che significa vedere le cose come sono, e il coraggio, che significa, invece, vedere le cose come potrebbero essere e quindi decidersi a cambiarle». È ricorrente questa citazione di Sant’Agostino nei vari interventi di don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele, sigla che compare tra le tante del “Coordinamento del 15 ottobre”. Il movimento ha lanciato l’appello per una manifestazione che si annuncia quanto mai numerosa tra le vie di Roma, seguendo il consueto itinerario che partirà nel primo pomeriggio da piazza Esedra per arrivare nel grande spiazzo davanti la basilica di san Giovanni in Laterano. Le avvisaglie si sono già avute con l’accampamento davanti alla Banca d’Italia, uno degli obiettivi sensibili perché rappresenta il simbolo di quella che i manifestanti definiscono una vera e propria “dittatura della finanza” imposta al pianeta da una cerchia ristretta di élite che nessuno ha mai scelto, ma che governano, di fatto, la vita di miliardi di esseri umani.

 

I governi nazionali sarebbero perciò dei semplici esecutori di direttive calate dall’alto che porterebbero alla compressione dei diritti fondamentali, a cominciare da quello al lavoro decente e dignitoso, sempre secondo gli organizzatori. Esemplare in questo senso la lettera, tenuta a lungo inspiegabilmente segreta, della Banca centrale europea diretta al governo italiano e che detta la linea delle scelte obbligate per ogni tipo di esecutivo, anche di quello tecnico: ipotesi certo non da escludere, e che viene considerato dai manifestanti peggiore di quello Berlusconi, perché farebbe con un consenso partitico più esteso gli stessi tagli allo stato sociale, alla sanità, al diritto al lavoro. 

 

Sostengono i promotori che la dittatura della troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Commissione europea) agirebbe in maniera irragionevole conducendo verso il disastro sociale, allo stesso modo in cui il trattato di Versailles impose, dopo la Prima guerra mondiale, un peso insostenibile alle nazioni sconfitte come la Germania, avviando il mondo verso il sorgere degli Stati totalitari e l’avventura di un conflitto ancor più devastante.

 

La mobilitazione non è solo italiana, ma è la risposta ad un appello lanciato da movimenti già presenti a livello europeo e che hanno condiviso lo slogan «Peoples of Europe, rise up!» (popoli d’Europa, sollevatevi). Un appello al “tirarsi su” senza accettare come «dogmi intoccabili il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita».

 

Contro il «golpe bianco» deciso dalle Borse occorrerebbe, secondo i promotori, puntare «sulla riconversione ecologica, la giustizia sociale, l’altra economia, sui saperi, la cultura, il territorio, la partecipazione, ridistribuendo radicalmente la ricchezza», recuperando «risorse dal taglio delle spese militari». Il movimento si schiera altresì contro la dismissione dei beni pubblici, nel momento in cui, come è noto, il ministro dell’Economia sta completando l’elenco dei beni da valorizzare e mettere sul mercato. Il punto di riferimento in questa direzione rimane il risultato del referendum sull’acqua di giugno, che ha indicato la rotta nel «restituire alle comunità i beni comuni ed il loro diritto alla partecipazione».

 

La manifestazione giunge al culmine di una serie di incontri, molto partecipati sebbene quasi ignorati dalla stampa, avvenuti tra studenti, lavoratori precari ed rappresentanti del sindacalismo di base e della Fiom. Un’intera giornata con centinaia di persone in un teatro romano, lo scorso primo ottobre, ha stabilito i punti condivisi tra i quali la scelta di non fare un comizio finale ma programmare una serie di brevi interventi provenienti da comitati e movimenti territoriali (dalla difesa del territorio, ai No Tav, dai precari ai lavoratori di aziende in crisi). Un movimento che è difficile contabilizzare a livello elettorale, pur se saranno presenti tutte le sigle della sinistra attualmente fuori dal Parlamento: vuole essere espressione di un’esigenza di democrazia diretta, capace cioè anche di rifiutare ogni delega, come certe statistiche dovrebbero aiutare a cogliere.

 

Il paragone con quanto accaduto a Genova nel 2001 è sempre incombente, anche perché sarà difficile controllare una serie di gruppi potenzialmente violenti che hanno annunciato la loro presenza ma che non si riconoscono nel coordinamento che ha promosso la manifestazione. Coordinamento deciso, invece, ad usare solo gli strumenti della disobbedienza civile. La tentazione per chi vuole trarre vantaggio da episodi di disordini per spostare l’attenzione su questioni di ordine pubblico è sempre alta: fa più notizia un bancomat preso a sassate che l’intervento in piazza di un cassintegrato che non sa come dar da mangiare ai figli. Così come è sempre forte l’altra tentazione, quella di rimanere indifferenti e non saper cogliere l’urgenza di una risposta al grido che invita a riconoscere le persone prima dei profitti.  

 

 

 

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