La povertà che non si dice

Le popolazioni rurali haitiane soffrono per lo stato del Paese, per una cronica difficoltà produttiva e per la siccità. Da Ouanamethe
Haiti

Da Port-au-Prince al Nord, a Cap Haitien, ci sono circa duecento chilometri di strade dissestate, che raramente vengono percorse dalle auto, perché delle bande di disperati paiono approfittare di tutti coloro che, soprattutto se stranieri, si avventurano in quelle terre di nessuno. Così ci si deve trasferire in aereo, con piccoli velivoli vetusti e insicuri che in poche decine di minuti fanno scavalcare le catene montagnose del centro del Paese: 85 miglia, poco più di 130 chilometri.

 

Dall’alto le tendopoli della capitale appaiono come macchie grigie e blu nella geometria urbana, ma lasciano presto lo spazio alla desolazione del territorio haitiano, dove gli alberi quasi non esistono e i corsi d’acqua paiono quasi assenti. A Cap Haïtien non c’è una sola strada asfaltata. La polvere avvolge tutto e tutti, lo spettacolo dei mercatini è più misero ancora di Port-au-Prince, la gente pare più sfaccendata e arrabbiata. Mi dicono di stare attento anche a scattare foto dall’auto. Qui si fa la fame. Ci sarebbe tanto pesce, ma la flottiglia dei pescherecci haitiani è men che misera, quasi inesistente. E l’agricoltura soffre enormemente per la siccità che stranamente colpisce l’isola di Hispaniola anche in questi mesi che dovrebbero essere quelli delle piogge.

 

Nella notte andiamo ad est, verso Ouanamethe, alla frontiera con la Repubblica Domenicana, e poi verso Mont Organisé, che si raggiunge in un’ora e mezza di strada sterrata. Uno dei tanti borghi della profonda terra haitiana, uno dei più isolati. Qui visito un centro straordinario di sviluppo endemico della società rurale, grazie a un pungo di persone animate dalla spiritualità dell’unità. Ne parleremo. Con loro visito le scuole dove il Wfp dell’Onu finanzia ogni giorno un pasto per i bambini e i ragazzi, che altrimenti rischierebbero di restare senza mangiare. Da queste parti, infatti, la siccità ha reso gli orti curati dalle famiglie, e fonte principale di sostentamento, poco meno che un deserto. Nelle case di legno, che qui almeno hanno un tetto di lamiera ondulata e non più di cannette, si mangia quando si trova qualcosa da mangiare, una volta al giorno. Ma talvolta non c’è nulla, e una brodaglia con un po’ di avena galleggiante può essere la sola fonte di sostentamento alimentare della giornata.

 

La gente non si lamenta, i mendicanti sono pochi, al mercato un pugno di riso lo si trova, se ci sono i soldi per comprarlo. Ma i bambini con la pancia gonfia crescono. In una capanna, vengono pesati i piccoli secondo i protocolli del Wfp, e vengono distribuite pastiglie proteiniche. Ma se non piove ancora, che succederà? Il deputato locale, un omone grande e grosso dagli occhi buoni, ai chiama Ronard Larèche, mi confida la sua tristezza «per un aiuto internazionale che si concentra su pochi progetti e che non riesce a capire dove far crescere la popolazione». E aggiunge: «Siamo grati a tutti, ma non riesco a vedere i nostri piccoli così malnutriti, a vedere le donne senza latte. Non siamo ancora all’emergenza fame, ma poco ci manca».

 

(Cose che accadono ad Haiti nel 2011. Ma noi siamo occupati altrove. Le notizie che leggo sui consueti siti web italiani mi rattristano e poi mi spaventano: siamo ormai insensibili al grido di chi soffre, per le colpe planetarie che ricadono anche e soprattutto sui nostri Paesi opulenti. Ci spaventiamo per poche migliaia di tunisini che cercano un futuro un po’ migliore sulle nostre coste, ci abbuffiamo di cronache giudiziarie, ci sbraniamo politicamente tra europei. Invece di far qualcosa di utile, invece di divulgare notizie “vere” dal mondo “vero” della gente che ancora non ha una vita almeno dignitosa. Poi gli amici locali mi raccontano dei contributi di gente generosa che arrivano dall’Italia, dal Lussemburgo, dal Canada: parlano di contributi, non di aiuti, non sono doni paternalisticamente piovuti dall’alto, ma i pochi soldi che le nostre famiglie mettono da parte. E allora mi dico che ancora non tutti siamo diventati dei mostri insensibili).

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