La posta del direttore

Idiritti umani sono di tutti Vorrei aggiungere una considerazione personale fra tutte quello che ho letto e sentito sui referendum. Sulla questione dell’embrione umano, sulla difesa dei suoi diritti vedo una grande pregiudiziale fra quanti hanno sostenuto i sì. Si parte dal presupposto che l’embrione non è persona in quanto non possiede determinate, se non tutte le capacità psicofisiche, per cui è legale, non si commette alcun reato, nel manipolare, usare l’embrione anche per scopi terapeutici, al punto da non ammettere tutele di alcun genere per questo che sembra insieme di cellule umane, a metà strada tra un nulla ed un quasi uomo. Mi dà da pensare la logica che sta sotto. Viviamo ormai in un’epoca in cui si misura l’essere umano, nelle varie fasi di sviluppo della sua vita, sulla base di ciò che è capace o meno di fare! Come dire: dal fare dipende l’essere. Ciò che conta in un essere sono le funzioni, le capacità, le abilità, l’efficienza, tolte quelle, l’essere umano vale sempre meno, fino ad arrivare al nulla, anzi no, peggio, a cosa da usare e buttare se è il caso. Sulla base di questa logica i diritti umani vanno riconosciuti e tutelati solo per esseri umani completi, dotati di tutte le capacità, efficienti ecc… mentre per gli altri esseri umani, incompleti, poco dotati o per nulla dotati, ridotti magari all’inefficienza, non c’è difesa della vita, non c’è legge, non c’è stato di diritto! Trovo aberrante tutto ciò, privo di fondamento non solo scientifico ma anche privo del più elementare buon senso. Ci sono delle valide argomentazioni razionali per difendere i diritti umani di tutti gli esseri umani, siano essi embrioni umani o esseri umani già nati e forse questo dibattito sui referendum ha contribuito a renderle maggiormente manifeste. Maria Rita Di Benedetto Fusione fra i popoli fattore positivo Ciò che l’attuale situazione di stallo in due importanti scenari internazionali (riforma Onu e riforma istituzioni Ue) dimostra, a mio parere, è che la gente non ha più fiducia negli altri, intendendo per altri chiunque sia in grado di minacciare i vari livelli di benessere fin qui raggiunti. La gente, in definitiva, non è più disposta a dare, giacché vede nella solidarietà un regalo non meritato fatto a chi mira esclusivamente (lavoratori dell’est europeo, paesi poveri, ecc.) ad imporre i propri modelli senza chiedere il permesso né tantomeno ringraziare. Ed ecco che qui può entrare in gioco chiunque (chiese cristiane e non cristiane, ma anche personalità ed organismi laici) non sia disposto a rassegnarsi a questa situazione. Ma come ridare fiducia? A mio parere bisogna puntare sull’esperienza fin qui raggiunta. Essa ci dimostra infatti che ogni qualvolta un popolo si sia dimostrato disposto ad accogliere e confrontarsi con altri popoli, sono stati sempre raggiunti traguardi eccezionali ed insperati. Perché, dunque, non continuare?. Antonino Ferro – Trieste Farei una distinzione. A livello personale, nei casi di grande calamità, come recentemente per lo tsumani nell’Oceano Indiano, la gente sa essere molto generosa nel dare e anche nell’accogliere. Diverso è l’atteggiamento di diffidenza sorto di recente verso certe categorie di immigrati, soprattutto per motivi di sicurezza. Quanto alla fusione fra popoli diversi, è vero quanto lei afferma, anche se i risultati spesso si sono visti solo dopo molto tempo: quando cioè le diverse etnie si sono fuse veramente. Così è stato in Europa, grazie al cristianesimo; e così nelle Americhe, dove il processo è ancora in corso. A onor del vero, oggi l’Europa si è dimostrata aperta, nei limiti del possibile, verso i nuovi venuti (non senza tornaconto); ma a complicare le cose ci si è messo il terrorismo. L’argomento, comunque, apre prospettive enormi che in parte trattiamo negli articoli e di cui continueremo ad occuparci. Ma i comandamenti sono dieci Faccio riferimento alla lettera del signor De Carli Dai Referendum un chiarimento politico sul numero 15/16 di Città nuova. Concordo sul fatto che, come cittadini, prima ancora che come cattolici, dobbiamo vigilare attentamente sul comportamento etico dei nostri politici e comportarci di conseguenza, quando è il momento di dare o rinnovare loro la fiducia. È giusto e doveroso pretendere dai nostri politici un comportamento etico, ma, questa volta come cattolici, non dimentichiamo che, se in questa occasione taluni parlamentari hanno difeso, a parole, la vita (non ammazzare) è altrettanto vero che esistono anche altri comandamenti:non rubare, non mentire,non desiderare la donna d’altri e fermiamoci qui. Chi ha cavalcato la tigre della tutela della vita in occasione del referendum è altrettanto solerte ed etico a difendere i valori etici dell’onestà, del matrimonio, ecc.? Per quanto mi riguarda, mi sembra giusto valutare i nostri politici sulla base di tutti i comandamenti. Anch’io, come il signor De Carli, avverto che le scelte elettorali sono strettissime, quasi obbligate: purtroppo, o per fortuna, i comandamenti sono dieci… Gian Maria Bidone – Grottaferrata Più rigore intellettuale Alla vigilia del referendum sulla legge 40/2004, mi è capitato sempre più spesso di discutere dell’argomento con amici e colleghi di lavoro. Complice la passionalità nel difendere le diverse posizioni a riguardo, quasi mai c’è stato un vero dialogo tra di noi. Infatti, l’interpretazione comunemente data alla campagna referendaria di scontro tra visione laicista e visione confessionale non ha permesso di elevare le nostre conversazioni sul piano della razionalità dei princìpi etici, sul terreno comune dei valori umani. Televisione e giornali hanno fatto altrettanto. Non ricordo trasmissioni nelle quali non venisse citata la morale cattolica per sostenere la legge con il risultato, tante volte, di impedire un confronto di idee all’altezza del tema trattato e di degenerare nella commistione tra religione e politica. Credo che il modo con cui è stata condotta la campagna referendaria ci insegna, per il futuro, che un maggiore rigore intellettuale può permetterci di recuperare la capacità di dialogare. Anna Di Gioia – Roma La pace dal perdono A proposito dello sgombero delle colonie ebraiche in Cisgiordania, io non capisco perché non possono coesistere nella stessa strada, nello stesso stabile, nello stesso pianerottolo famiglie ebree ed arabe. E nello stesso quartiere sinagoghe, moschee, chiese cristiane. Come voi avete più volte affermato il conflitto arabo-israeliano è crudele perché entrambe le parti in causa hanno ragione. Giovanni Paolo II ha benedetto insieme entrambe le bandiere.Vorrei che l’esperienza di Never Shalom si estendesse a tutto il paese. Anna Maria De Guidi Gambassi Mercatale V.no Per chi non lo sapesse, l’esperienza di Never Shalom è quella di una convivenza liberamente scelta da ebrei e palestinesi, proprio per testimoniare che la tolleranza è possibile e fruttuosa. Conosciamo la storia infinita che ha prodotto tanto odio fra questi due popoli e gli infiniti tentativi di pacificazione avviati e regolarmente frustrati da chi preferisce la vendetta al perdono. Eppure la maggior parte della popolazione vorrebbe la pace. Sono convinto che solo partendo dal perdono sincero la si potrà raggiungere. Ancora su fermezza e dialogo Le scrivo in merito al suo articolo,Fermezza e dialogo apparso nel numero 14 di Città nuova. Conosco da molti anni e apprezzo il vostro movimento: aspettavo con impazienza di leggere l’opinione su una questione così grossa e scottante.Devo dire però che sono un po’ delusa: dobbiamo conoscerci. Stimarci. Qualcuno suggeriva di cominciare invitando a pranzo una famiglia di musulmani. Sarebbe un buon inizio.Ottime cose,ma adatte a qualche anno fa, quando cominciavano ad arrivare e per conoscerci e accoglierli quello poteva essere un buon inizio, tanto buono che più di qualcuno lo ha fatto. La mia stessa famiglia già cinque anni fa aveva intrecciato un interessante relazione con una famiglia marocchina, ma oggi ritengo sia una soluzione inadeguata, forse troppo ingenua, a meno che non sia l’inizio e che qualcosa segua. Ed è quello che spero: se localmente le famiglie possono, è auspicabile che mantengano (ex-novo lo vedo più difficile) rapporti anche più amichevoli con le famiglie musulmane (mantengo deliberatamente la differenza Islam-famiglie islamiche), ma occorre qualcosa di più. Non posso scordare che i kamikaze di Londra erano inglesi! Nati e cresciuti in quella che dovevano vedere come patria: e domani, i miei bambini magrebini? Saranno anche loro plasmati per farci saltare, magari andando a cercare proprio quelli che non li facevano giocare (è difficile integrarli anche nel gioco, i maschi arrivano a nove- dieci anni, il tempo dell’ingresso in moschea, e cambiano atteggiamento, le femmine vivono con l’invidia della libertà e delle possibilità delle loro coetanee, per non parlare delle diffuse difficoltà nello studio). Insomma, vorrei un aiuto maggiore da chi ha sperimentato la fraternità nel mondo: qualche caso, i rapporti con l’Islam in altri paesi (es. l’America: Chiara Lubich ha ricevuto un’onorificenza da quel mondo, e ora cosa è cambiato?) Avere qualcosa in più dalla vostra esperienza significherebbe trovare una via di mezzo tra la difesa ad oltranza e l’apertura senza se e senza ma. Antonella Diegoli – Finale Emilia Fuori dal contesto, la frase che lei cita può effettivamente apparire ingenua. Ora, fra le diverse opzioni che da ogni parte vengono suggerite per combattere sia il terrorismo che l’instaurarsi di una contrapposizione frontale col mondo islamico, noi continuiamo a proporre il dialogo ad oltranza. Ciò non significa essere ingenui, ma esige prudenza e onestà reciproca, e se necessario usare fermezza: tanto che, a mio avviso, si è atteso fin troppo a estradare certi predicatori di odio nelle moschee e nelle scuole coraniche del nostro paese. Ma altrettanta attenzione va riservata a chi demagogicamente cavalca il risentimento popolare verso immigrati propensi a delinquere, assimilandoli a quanti vivono onestamente. Quanto alla nostra esperienza, si può dire che non c’è numero della rivista che non ne parli, anche se non porta l’etichetta perché il dialogo vorremmo diventasse un costume che investe tutti gli ambiti della nostra vita, i rapporti fra i popoli e fra le religioni.

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