Mi capita sempre più frequentemente di incontrare nella stanza di terapia giovani adulti (tra i 19 e i 35 anni) che, alle prese con un trasferimento per motivi di studio o di lavoro, manifestano una forte ansia legata all’allontanamento da casa e dalla propria famiglia. Ansia che si manifesta, non solo per la prima partenza, ma ogni volta che dopo essere rientrati per le festività o le vacanze estive bisogna andar via nuovamente.
Giacomo è riuscito, dopo vari tentativi, a trovare un lavoro che risponde al suo desiderio di indipendenza economica, ma ogni volta che deve lasciare la Sicilia per raggiungere Torino, programmare il viaggio risucchia tutte le sue energie. Un vero tormento, una fatica estrema, un blocco che si manifesta con una forte intensità emotiva e con attacchi di panico al solo pensiero di dover prendere l’aereo. Dai nostri colloqui, via via che andiamo più in profondità, ciò che emerge come causa di questa forte ansia è la paura di essere dimenticato.
Una paura che in alcuni casi diventa un’angoscia profonda, una costante sensazione di vuoto. La paura che, una volta spariti dagli occhi altrui, saremo dimenticati, smetteremo di esistere. La terribile sensazione che la forza del legame che ci unisce ai nostri cari sia direttamente proporzionale al numero di chilometri che ci separa da casa. “Io vado via proprio adesso che loro si riuniscono con tutta la famiglia… sembra che si divertano di più quando io non ci sono”, sono solo alcune delle frasi che Giacomo ripete ogni volta che la partenza si avvicina e che esprimono la sua lotta interiore con la paura di essere invisibile, di non mancare a nessuno quando non c’è.
La paura di essere dimenticati non è solo un pensiero triste, non è semplicemente un desiderio di attenzione, ma un bisogno esistenziale di essere visti, riconosciuti, ricordati. Essa può manifestarsi in forme sottili o estreme, influenzando le relazioni, l’autostima e il senso di sé.
Ma da dove nasce questa paura? E perché, per alcune persone, diventa una ferita difficile da rimarginare? Secondo la “teoria dell’attaccamento” del medico e psicoanalista John Bowlby, i bambini sviluppano un senso di sicurezza quando percepiscono che le figure di riferimento sono stabili, presenti e lo riconoscono come individuo. Se queste figure sono assenti, imprevedibili o emotivamente distanti, il bambino può interiorizzare l’idea che non valga abbastanza da essere ricordato o che, in loro assenza, scompaia anche il suo valore. Questo avrà delle conseguenze concrete sulla vita della persona poiché, come sostiene Bowlby «l’attaccamento è parte integrante del comportamento umano dalla culla alla tomba».
Questa insicurezza può così accompagnare l’individuo anche in età adulta e presentarsi in tutte le sue relazione, soprattutto quelle più intime, sotto forma di ansia da abbandono, dipendenza affettiva, bisogno eccessivo di approvazione o comportamenti volti a “restare impressi” negli altri: iperproduttività (faccio tutto ciò che posso per farmi presente), ricerca di popolarità (per esempio ipercondivisione sui social media), o anche disregolazione emotiva talvolta drammatizzata. Comportamenti agiti in maniera inconsapevole che possono diventare una trappola: più ci sforziamo di lasciare un segno, più possiamo sentirci vuoti se non riceviamo la risposta sperata.
Il desiderio di lasciare un segno nella memoria degli altri è umano, fa parte del desiderio di appartenere, di essere amati, di non svanire nel tempo. Ricordare è un modo per rendere immortale chi non c’è più. In molte culture si tramandano storie, tradizioni, riti che fanno parte della storia di quel popolo, che ci ricordano la loro appartenenza all’umanità. Essere ricordati significa essere riconosciuti come parte di qualcosa di più grande di noi. Può assumere una valenza sana: ci motiva a costruire relazioni significative, a creare, a trasmettere valori. Tuttavia, quando tutta la nostra autostima dipende dallo sguardo altrui, tendiamo a vivere la nostra vita, a fare le nostre scelte in funzione di ciò che pensiamo gli altri ricorderanno di noi, che pensiamo possa rafforzare il nostro legame con loro e non più in base a ciò che sentiamo essere vero per noi stessi. Il rischio è che per essere ricordati da chi amiamo siamo noi i primi a dimenticare noi stessi, a dimenticare di ascoltarci per essere pienamente presenti nella nostra vita e fare le nostre scelte con consapevolezza.
Affrontare la paura di essere dimenticati richiede un processo delicato, che passa attraverso il riconoscimento del proprio valore indipendentemente dallo sguardo altrui. Dalla possibilità di integrare esperienze di abbandono o trascuratezza emotiva, di coltivare relazioni autentiche, in cui il legame non si fonda sul bisogno di essere ricordati, ma sul piacere della connessione.
La paura di essere dimenticati è una testimonianza della nostra profonda natura relazionale. Desiderare di restare nella mente e nel cuore degli altri è insito nella nostra natura umana. Tuttavia, è fondamentale imparare a ricordare noi stessi, a custodire la nostra storia, ad appropriarci di ciò che siamo. Perché solo quando impariamo a non dimenticarci, possiamo iniziare a vivere liberi dal timore di svanire.