La pace che c’è

Un titolo sbagliato? Non proprio. Forse un po’ provocatorio. Non ne possiamo più di scene di morte, kamikaze che si fanno esplodere e carri armati che radono al suolo i villaggi. Siamo terrorizzati pure noi di aprire quella scatola nera e sentire gemiti di lamento, vedere volti spenti, bambini vaganti, donne disperate, fosse comuni. Se infatti è sotto gli occhi di tutti l’odio che continua a lacerare il Medio oriente, non altrettanto lo è la pace. Quella che i grandi governanti spesso fanno fatica a costruire. Quella che invece, invocata e attesa da tutti, ha già radici profonde quanto è profonda la ferita provocata, ancora aperta e sanguinante. Che non si rimarginerà certo con un colpo di spugna. Ma anche nei momenti più critici accanto a chi uccide c’è pure chi perdona. Contemporaneamente alla morte si semina la vita, insieme al terrore convive la speranza e la solidarietà. Sarà questo che potrà costruire la pace, quella duratura. Ce ne parlano alcuni nostri amici che vivono proprio lì, in quella terra detta Santa. Ancora sotto l’assedio di Betlemme, Amal, una cristiana palestinese, ci faceva sapere: “Mentre vi scrivo sento gli spari vicini e vedo dalla finestra i carri armati che circondano tutta la città. È vietato per noi uscire da casa, non possiamo neanche fare la spesa. Vivo in uno stato d’angoscia. Ho una bambina di un anno e mezzo, sono molto preoccupata per lei, ma sin dalla sua nascita l’avevo affidata alla Madonna e sono sicura che lei la proteggerà. Que- sta situazione è pesante, però sento di affidarmi solo a Dio e continuare ad avere speranza nella pace. Sono sicura che le vostre preghiere e quelle di tutti quelli che credono nella pace faranno sì che la situazione cambi”. Iniziative comuni fra palestinesi ed ebrei “La grave situazione di guerra ci ha spinto l’altro giorno ad invitare alcuni amici arabi ed ebrei a casa nostra per pregare insieme per la pace – ci scrive Margherita -. La sera prima, dopo aver sentito le notizie al telegiornale, ci chiedevamo se sarebbe stato possibile fare una cosa del genere in questa situazione così disperata, dove c’è tanto odio fra i due popoli. Ma ci siamo subito lanciate con fede. L’indomani, sono arrivate 14 persone, colleghe di lavoro, di studio, vicini di casa. La lettura di salmi, i canti nelle varie lingue, la preghiera del time out e il pranzo, hanno veramente creato un rapporto di grande apertura fra tutti. E’ stato un momento di vera pace. Ad un certo punto si è creata un’aria profonda di preghiera con l’unico desiderio nel cuore di avere la pace in questa terra. Una signora russa diceva: “Sono arrivata nel ’48 in Israele e ho vissuto sempre tra tensioni e guerre. Oggi è stato uno dei giorni più belli della mia vita”. Un’araba cristiana: “Non abbiamo sentito che c’erano delle differenze fra di noi. Avevamo lo stesso desiderio di pace e di un futuro migliore”. Un’altra araba cristiana: “Stando insieme ho sentito una gioia immensa. Vale la pena di credere che Dio interviene”. Un ragazzo arabo: “E’ stato bello conoscerci reciprocamente, è stato un primo passo per superare il razzismo che c’è attorno””. Così succede anche che il Municipio di Haifa chieda al Movimento dei focolari presente in quella città di organizzare un’attività sociale per 140 bambini cristiani, ebrei e musulmani: un pomeriggio di festa prima della Pasqua cristiana ed ebraica che quest’anno cadeva nella stessa data. Se ne occupa un piccolo comitato che per l’occasione prepara 140 “dadi dell’amore” colorati (quei dadi lanciati dai gen 4 nelle cui facce sono scritti i punti dell’arte di amare), una danza, dei giochi e canti. Allo stesso tavolo si ritrovano così bambini ebrei ed arabi, che riescono ad intendersi benissimo pur non avendo una lingua comune, con grande soddisfazione di tutti. Gesti di quotidiana eroicità Ce ne sono numerosi di episodi e iniziative da raccontare Fanno parte di quelle notizie che ci piacerebbe venissero ampiamente diffuse. Come quella che ci racconta Riham. “Come si sa i palestinesi devono aspettare in lunghe file ai diversi posti di controllo per poter uscire dalle città. Uomini, donne, bambini, persone anziane, tutti devono attendere il loro turno. Un giorno, una giovane arrivando ad un posto di blocco ha saputo che c’era l’ordine di non lasciare passare nessuno, e che neanche si poteva tornare indietro. Faceva molto caldo, la gente era stanca e cominciava a perdere la pazienza. Invece leicomincia a parlare con alcuni. Nello stesso momento un soldato israeliano, vedendo tutta questa folla ad aspettare, prende alcune sedie e le porta alle persone più anziane e presta il suo telefono cellulare ad una ragazza araba che era angosciata perché non riusciva a contattare la sua famiglia. Colpito dall’atteggiamento positivo del soldato, la gente si distende. Un giornalista che si trova sul posto vuole fare un’intervista alla giovane ma lei gli risponde: “E’ meglio che intervisti quel soldato israeliano, perché tutti sappiano che anche loro vogliono costruire la pace” “. E Mariam dei Territori palestinesi: “Un giorno, sento di nuovo alla radio che c’era stato un grande attentato. Volevo fare qualcosa per costruire la pace. Tornando a casa, al posto di blocco israeliano, anche se pioveva tanto e camminavo nel fango, nel mio cuore volevo parlare con un ebreo per comunicargli il mio desi- derio di pace. Ma le uniche persone ebree che vediamo, sono i soldati. Vado verso uno di loro e gli chiedo se parla l’inglese. Mi risponde di si. Cominciamo a dialogare e gli dico che mi dispiace per quanto sta succedendo, che non approvo gli atti di violenza. Da parte sua, mi dice la stessa cosa, che non è d’accordo con quanto succede lì da noi. Alla fine, mi saluta con un grande sorriso e con un “take care” (stai attenta). Al blocco di controllo, tutti mi guardano, come a chiedersi come mai parlavo con lui, ma io ero felice”. Che dire poi del villaggio di Neve shalom dove ebrei ed arabi, non lontano da Gerusalemme, abitano insieme nell’uguaglianza e nella fraternità con la speranza di formare una nuova generazione di cittadini addestrati al dialogo; o del progetto Open house che a Ramle, tra Tel Aviv e Gerusalemme, vede coesistere pacificamente ebrei e arabi palestinesi musulmani e cristiani. Solidarietà in moto “A Gerusalemme, durante l’ultimo incontro incentrato sulla Parola di vita, tutti hanno espresso il desiderio di fare qualcosa di concreto per aiutare i Palestinesi dei Territori colpiti dalla guerra, – ci racconta Hassem -. Così subito abbiamo formato un piccolo comitato per organizzare una raccolta di cibo. Ora molti stanno aderendo all’idea: amici, vicini, proprietari di negozi alimentari, alcuni dei quali musulmani. La parrocchia ha messo a disposizione una sala per quanto si raccoglie, per poter poi far arrivare tutto quanto a Betlemme. Molti si sono dati da fare e si è riusci- to a preparare fino ad ora dei pacchi di cibo per una settantina di famiglie. Un giorno in cui il coprifuoco veniva tolto, abbiamo potuto fare arrivare a Betlemme quanto raccolto. La gioia e la riconoscenza profonda di quanti hanno ricevuto questo piccolo aiuto era commovente. Nella loro situazione di estremo bisogno era veramente un segno dell’amore di Dio per ognuno”. La forza del time out Un minuto di silenzio e di preghiera che dal ’91 sintonizza alla stessa ora (le 12 ora italiana) tutto il mondo in un’incessante richiesta per la pace. A Gerusalemme due ragazze lo hanno lanciato in alcune classi della loro scuola a circa 600 bambini. La direttrice di una scuola di Haifa ogni giorno attraverso un microfono lo propone a tutte le classi. Più di 4.000 copie della preghiera del time out sono state stampate e distribuite in vari ambienti coinvolgendo anche musulmani ed ebrei. E a Gaza, le persone del Movimento hanno fatto un’ora di preghiera per la pace dove con la comunità delle Piccole Suore di Gesù hanno coinvolto altre persone del quartiere in cui vivono. Erano in 40. Tutti erano molto colpiti. Dicevano: “… era come un esame di coscienza, un momento di pentimento davanti a Dio. Abbiamo capito che Lui è la pace e noi dobbiamo tornare a vivere con radicalità il vangelo…”. Potremmo anche chiudere qua l’articolo perché di fronte a queste testimonianze di pace sul campo di battaglia qualsiasi altra iniziativa impallidisce. Ma ci piace anche vedere come il bisogno di pace produca iniziative di pace dappertutto. Grazie sempre a quella scatola nera, nessun dramma ormai è così lontano da non toccarci. E quella pace invocata genera una vera e propria cultura di pace. Cultura nel senso ampio, come stile di vita, come modo di guardare la storia. Difficile non chiedersi: “Io cosa posso fare?”. Se lo son chiesti al comune di Riccione dove è stato istituito l’assessorato alla pace; all’università di Firenze, che ha inaugurato il nuovo corso di laurea per “Operatori di pace”; a Roma dove è stato proposto al Colosseo un concerto per la pace e dove manifestazioni hanno visto fianco a fianco palestinesi ed ebrei. Torino ospita il 1° appuntamento mondiale Giovani della pace dal 4 al 6 ottobre; Assisi fa da sfondo ad un’edizione straordinaria della marcia per la pace il 12 maggio; Bruxelles ad un concerto di Noa, cantante israeliana, e Nabil Salameh, artista palestinese. E non finiremmo più. Anzi non finiremo più. Finché non ci sarà pace. Per tutti. Il dovere della pace Intervista con Tullia Zevi, già presidente delle comunità ebraiche in Italia. Di fronte alla drammatica situazione del conflitto in Medio Oriente, lei pensa sia ancora possibile parlare di pace? “Abbiamo il dovere di continuare a credere che parlare di pace di pace sia non solo possibile, ma necessario. Qualsiasi alternativa alla ripresa di negoziati che esaminino le possibilità e stabiliscano le condizioni perrisolvere un conflitto pluridecennale, che è costato lutti e rovine a entrambi le parti, comporterebbe altri lutti, altre distruzioni. Si tratta di due popoli – palestinesi e israeliani – sostanzialmente affini, e uniti da una comune discendenza semitica e abramica, e che devono essere aiutati a coesistere condividendo un medesimo territorio”. Cosa serve alla pace, e cosa invece la danneggia? “La continuazione della tragica serie di attacchi e di ritorsioni, che causa lutti e distruzioni a entrambe le parti di dimensioni e intensità crescenti rischia di determinare situazioni irreversibili e di compromettere qualsiasi tentativo di fermare questa lotta fratricida. Da queste premesse discende la necessità di individuare e attuare iniziative che consentano la transizione dalla lotta armata – sia essa condotta da un esercito che me- diante azioni terroristiche suicide ed omicide – all’inizio di un processo negoziale”. Di quali strumenti dovrebbe servirsi la comunità internazionale per favorire un processo di pace duratura? “Deve essere chiaro che le decisioni fondamentali riguardanti il futuro di Israele e del popolo palestinese, i loro ordinamenti interni ed i loro rapporti reciproci devono scaturire dagli abitanti di quelle terre e dai loro legittimi rappresentanti. “Sono decisioni che dovrebbero esprimere le aspirazioni ai diritti fondamentali di giustizia, di libertà, di democrazia, di pluralismo e di coesistenza inter-religiosa che sono quelle di ogni essere umano e di ogni popolo. “Per ora odio e violenza non sembrano placarsi, se non in forma temporanea e precaria. Si avverte quindi l’urgenza di individuare metodi di intervento che aiutino i due popoli a riprendere il cammino del dialogo. “Il termine “comunità internazionale” da lei usato è forse troppo generico. Penso si debbano distinguere due livelli: da un lato i governi e le organizzazioni internazionali (Unione Europea, Nazioni unite, Fao, Unrwa, ecc…) per la ricerca di soluzioni politiche; dall’altro quella che si suole chiamare la “società civile” e che si manifesta tramite iniziative umanitarie, sanitarie, educative, sociali, collaborando con entrambe le parti nell’opera di ricostruzione e di riconciliazione. “Penso che potrebbe essere proficua una collaborazione ed un sostegno da parte di elementi attivi e moderati appartenenti alle due “Diaspore” – quella ebraica e quella palestinese – stanziate nei Paesi occidentali, e che potrebbero collaborare in “joint ventures” sociali, economiche e culturali nell’interesse congiunto dei due popoli”. 35 anni di accordi I trattati… La base attuale degli accordi di pace fra Israele e Palestina è costituita dal Trattato di Oslo, negoziato dalle due delegazioni nel ’93 nella capitale norvegese. La firma venne apposta il 13 settembre a Washington, alla presenza di Bill Clinton. Storica, in quell’occasione, la stretta di mano fra Arafat e Rabin. Tale trattato prevedeva il completo ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania ed il riconoscimento del diritto dei palestinesi all’autogoverno di tali territori. Il 2 settembre ’95 un successivo accordo chiamato “Oslo numero 2” ammetteva il diritto dei palestinesi di governare in piena autonomia Betlemme, Jenin, Nablus, Qalqilya, Ramallah, Tulkarm, parti di Hebron e 450 villaggi senza però intaccare il diritto degli israeliani di controllare insediamenti ebraici. È del 23 ottobre ’98 il Trattato di Wye per la sicurezza dei territori firmato da Arafat e Netanyahu, modificato il 13 settembre dell’anno dopo dallo stesso leader palestinese e da Ehud Barak. Quest’ultimo stabiliva il 13 ottobre 2000 come scadenza per un trattato di pace conclusivo. … e le risoluzioni. Dopo i conflitti del 1967 e del 1973 fra Israele e arabi vennero approvate dall’Onu le risoluzioni n° 242 del 22 novembre 1967 e n° 338 del 22 ottobre 1973. In base a queste Israele avrebbe dovuto ritirarsi dai territori occupati e i paesi arabi avrebbero dovuto riconoscere lo stato di Israele. Di recente l’Onu ha approvato altre due risoluzioni. Il 12 marzo scorso con la n° 1397 per la prima volta si indicava l’esistenza di “una regione in cui due stati, Israele e Palestina, vivano fianco a fianco, all’interno di frontiere riconosciute e sicure” e veniva chiesta la fine immediata delle violenze e del terrorismo. Il 30 marzo poi, con la risoluzione n° 1402 si chiedeva il ritiro delle truppe israeliane dalle città palestinesi con un “cessate il fuoco significativo” di entrambe le parti.

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