La mano tra i capelli

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Non aver paura, Ania, Deborah non ti strapperà i capelli, non ti farà alcun male, perché ha capito che le vuoi bene. Lo ha letto nei tuoi occhi, quelle volte che li ha incrociati, per qualche istante, prima che lo sguardo le scivolasse inevitabilmente altrove, in una specie di ineluttabile irrequietudine, che era la sua malattia senza nome. Girava, Deborah, senza pace, senza alcun interesse in quello che accadeva intorno a lei. Se si riusciva a coinvolgerla in un lavoro o un gioco, era solo per qualche minuto. Poi scappava, insoddisfatta, impaziente. Non c’era verso di stabilire un contatto. Ma soprattutto c’era il problema dei suoi attacchi. Succedeva che una rabbia latente le esplodeva all’improvviso dentro, e allora lei afferrava per i capelli chi aveva sotto mano con una forza disperata. Bisognava intervenire in due per farle lasciare la presa. A volte le rimaneva un ciuffo di capelli in mano, mentre sulla testa del poveretto capitatole a tiro si apriva una ferita. Per questo avevano tutti paura di lei. Forse Deborah aveva bisogno di cure mediche specializzate che voi non potevate assicurarle. Il vostro era solo un centro di assistenza. Si parlava di mandarla via. Nessuno sapeva bene che malattia avesse. Neanche tu te ne intendevi; era il tuo primo lavoro come assistente sociale. Sapevi, però, che mandarla via avrebbe voluto dire affidarla ad un ospedale psichiatrico. L’idea ti rattristava enormemente. Chissà che fine avrebbe fatto. Non sapevi perché, ma le volevi bene, sì, proprio a lei, tra i tanti ragazzi meno difficili che ti erano affidati. Avevi il sospetto che Deborah fosse diversa da quello che sembrava. Credevi che sotto quella maschera di aggressività ed incomunicabilità si nascondesse una ragazza, in fondo, buona. Non te l’aveva spiegato nessun libro di psicologia, te lo suggeriva il cuore. Decidesti di ascoltarlo. Deborah preferiva l’erba ed il silenzio delle colline che circondavano il centro d’assistenza, agli interni di una casa di legno pur bella, ma per lei troppo angusta. E a voci, troppe voci, di invito, consiglio, rimprovero. Meglio fuori, meglio soli, nel verde, sull’altalena: il suo passatempo preferito. Amava dondolarsi, pensando forse al mare, alla sua isola, oasi lontana. Se quello era il suo mondo, tu ci saresti entrata, in punta di piedi, con delicatezza, sperando di diventare, col tempo, una presenza gradita. La accompagnavi nelle sue brevi passeggiate. Camminavate sull’erba. Tu le parlavi come ad un’amica, il tuo tono delicato la tranquillizzava. Lei ascoltava senza dir niente. Quando arrivavate all’altalena Deborah veniva presa da improvvisa euforia. Dimenticava di aver superato da tempo i vent’anni e ridiventava bambina, si abbandonava, si lasciava cullare. Sembrava felice. Ma era una gioia evanescente. Deborah d’un tratto cambiava umore. Passava sull’anima una nuvola nera. Ed era tempesta, bufera. Ogni sua crisi era in qualche modo anche tua. Ma non ti arrendevi, sfruttavi tutte le occasioni per farle sentire il tuo affetto. A Deborah piaceva cantare? Imparavi canzoni sconosciute, in una lingua che non è la tua. Amava giocare? Giocavate, con le sue regole, i suoi tempi. Un puzzle durava giorni. Tu preparavi i tasselli, iniziavi a comporli, lei passava, metteva un tassello al posto giusto e poi scappava. Un tassello alla volta, una canzone dopo l’altra, passeggiando, dondolando, sull’erba, nel vento. Lentamente, la stavi conquistando. Deborah non parlava volentieri e se parlava erano spezzoni di frasi ripetute in cerchio, ricordi sconnessi, niente di pertinente, in apparenza. Rispondeva con sentenze brevi. Di conversare non se ne parlava. Preferiva non aprire spiragli sulla sua anima. Nessuno doveva conoscere i suoi sentimenti. Perché nessuno avrebbe capito. Una volta, però, dopo l’ennesima lite, decise di scoprire le carte. Si sedette al computer e scrisse: io non voglio fare male a nessuno, ma non sopporto che gli altri abbiano paura di me. Paura della paura altrui. Un circolo vizioso di sfiducia che si autoalimenta. C’è solo un modo per spezzarlo: fidarsi. Che vuol dire rischiare, credendo alla buona volontà altrui. Se ne presentò l’occasione. Deborah un giorno si avvicinò in silenzio. Tu le sorridesti, come sempre. Lei ti mise una mano tra i capelli. Un brivido sottilissimo ti attraversò la schiena dai piedi al collo, come una scossa. Diventasti rigida. Lei se n’accorse. Eri già pronta ad afferrarle la mano quando ti sorprese un pensiero: non so cosa Deborah abbia in mente, ma non deve essere una cosa brutta, anche se ho visto scene simili concludersi male, devo fidarmi. La lasciasti fare. Deborah fece una cosa bellissima. Un gesto dolce, da bambina. Affondò la mano trai tuoi capelli ed iniziò, semplicemente, a pettinarli. Una corrente invisibile scaricò la tensione del tuo corpo nell’aria. In un istante riacquistasti scioltezza, serenità. Eri quasi commossa, mentre lei ti pettinava dolcemente e tu ti abbandonavi tra le sue mani. Come una figlia con sua madre, come una sorella amata. Sarebbe stata una gran bella foto, se qualcuno l’avesse scattata. Col tempo Deborah cambiò. Quando partivi era irriconoscibile: non attaccava più nessuno, cantava, danzava. Era felice, una bambina felice. Qualcosa le si era sciolto dentro, un nodo al cuore, forse. Si era finalmente svegliata da un brutto sogno, nel quale gli uomini erano sospettosi, cattivi, temibili. E invece adesso le volevano bene. Per questo non aveva più paura. Bisognerebbe finire così, senza commenti, senza domande. Eppure, non posso fare a meno di chiederti se hai letto La cosa più grande del mondo, quello straordinario commento di Enrico Drummond all’inno alla carità di san Paolo. Ad un certo punto scrive: Godere della fiducia significa essere salvati. Se cerchiamo di influenzare o di sollevare gli altri, ci accorgeremo presto che il successo è proporzionale alla loro fiducia nella nostra fiducia in loro, poiché nessun uomo potrà ritrovare il rispetto di sé stesso finché non si sentirà rispettato dal prossimo. La verità è che stavo scrivendo un articolo su Drummond quando mi è capitata tra le mani la tua storia. L’immagine di Deborah che ti mette la mano tra i capelli per… pettinarli, non mi lasciava in pace. Così ho dovuto mettere da parte l’articolo per raccontare di lei e di te. Non so se lo porterò mai a termine. Forse basta la storia di Deborah. Valgono più due pagine di pratica che volumi di teoria. Credo che Drummond convenga e non me ne abbia a male.

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