La lunga ora di Dino Campana

Torna, dopo il successo della scorsa stagione, La più lunga ora, con Vinicio Marchioni regista e interprete. Intervista all'attore romano.
Vinicio Marchioni

Due scarpe. Un tappeto circolare di fogli sparsi. Sopra, due sedie. Su queste sosta il poeta Dino Campana, a cui dà voce e corpo con vibrante partecipazione Vinicio Marchioni. Al poeta di Marradi l’attore romano, che firma anche la regia, dedica un intenso monologo, La più lunga ora, ricostruendo un sofferto percorso interiore di sopravvivenza negli anni dell’internamento in manicomio.

 

Non è più il poeta che, vagabondo, travolge ciò che incontra, come la piena di un fiume. Marchioni lo fissa nell’inseguire la vita e i suoi versi perduti, quei Canti Orfici smarriti che egli ricostruì con la fatica e la furia di chi non riesce a ricomporre la propria immagine. Rivive il tentativo di vendere personalmente le pagine di quel libro nei caffè letterari di Firenze pur di essere riconosciuto come poeta, «pur di esistere».

 

Emergono visioni, ricordi, tremori, e quel buio dello spirito che lo accompagnò nei quattordici anni di segregazione. Quaranta minuti sono forse troppo brevi perché tanta materia prenda corpo a sufficienza. Ma va lodata la convincente prova di Marchioni, che infine, sulla canzone finale Povera Patria di Battiato, fissa il vuoto lasciandoci un alone di misteriosa lontananza.

 

(Alla Cometa Off di Roma dal 16 al 18, e dal 23 al 25 novembre).

 

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Intervista a Vinicio Marchioni

 

Forse è un giornalista mancato. Forse, anche, un critico o uno sceneggiatore a noi sottratto. Mestieri a cui aspirava. Di sicuro è un attore riuscito. Dopo aver calcato per qualche anno il palcoscenico, la notorietà al grosso pubblico arriva con la serie televisiva Romanzo Criminale, dove interpreta il ruolo del “Freddo”, uno dei tre capi della banda della Magliana.

Un ruolo impegnativo, da maledetto e cattivo, per il quale ha vinto il premio come miglior attore dell’anno nella categoria Lunga serialità al Roma Fiction Fest 2009. Pur ammettendo, per indole, di sentirsi particolarmente versato per personaggi drammatici, l’attore romano confessa di ambire a recitare in una commedia, alla Dino Risi.

 

Lo imbarazzano i complimenti, anche se verrebbero spontanei dopo che lo si è visto, e soprattutto, almeno a teatro, ascoltato. Terminate da poco le riprese del film 20 Sigarette a Nassyria di Aureliano Amadei, e nell’attesa di vederlo sullo schermo con Sulla strada di casa di Emiliano Corapi, Marchioni torna a riproporre, dopo il debutto dello scorso aprile, La più lunga oraRicordi di Dino Campana, un monologo appassionato imperniato sugli ultimi 14 anni di Campana trascorsi nel manicomio di Castel Pulci.

 

Hai sempre avuto la passione per la scrittura, e una predilezione per la poesia di Campana. Inevitabile quindi approdare ad un lavoro sul poeta di Marradi, del quale sei autore interprete e regista. Da quale necessità nasce questo spettacolo?

«Intanto devo dire che la regia mi mette paura. Ho voluto solamente mettermi alla prova facendo uno spettacolo piccolo, senza nessuna pretesa. Nasce dall’esigenza di riuscire a concludere questo progetto al quale lavoravo da un paio di anni. Tra un impegno e l’altro studiavo le biografie, i Canti Orfici, e ogni tanto scrivevo qualcosa. Quando si è palesata la possibilità di un allestimento ho voluto scommettere con me stesso, volendo mettere in scena le cose che avevo immaginato fino ad allora».

 

Ma non hai voluto affidarti a un regista…

«Ho ritenuto meglio e più semplice che fossi io a fare anche la regia piuttosto che affidarla a un’altra persona che avrebbe messo altre idee in campo, altri linguaggi. E sicuramente avremmo impiegato più tempo».

 

C’era anche l’esigenza di ritornare sul palcoscenico dopo la lunga assenza per l’esperienza sul set di Romanzo criminale?

«Sì, volevo ritornare a contatto col pubblico dopo aver passato sette mesi davanti alla macchina da presa. Personalmente, oggi ne ho un bisogno enorme. È una necessità. Penso lo sia per ogni attore. Mi auguro di avere sempre la possibilità di ricavarmi lo spazio per stare in scena, perché il palcoscenico ti mette da subito nella condizione di paura, e se sbagli te ne assumi la responsabilità. La macchina da presa, invece, avendo tutt’altro tipo di difficoltà, dà meno soggezione e dopo un po’ la paura passa. Il pubblico in carne ed ossa, invece, è inesorabile. La sua presenza viva ti fa immediatamente percepire se sta andando bene o no, se sei pienamente dentro a quello che stai dicendo».

 

Cosa ti ha interessato maggiormente di Campana, e cosa hai voluto evidenziare nello spettacolo?

«Avevo solo ben chiaro di non inserire le poesie. Mi interessava l’aspetto più intimo e delicato, far rivivere un flusso che riprendesse le immagini della vita. Mi interessavano soprattutto gli ultimi anni in manicomio, dei quali non si è mai parlato: pensare a cosa può fare un uomo per tutto quel tempo in quelle condizioni. Ma non volevo calcare sulla schizofrenia, sulla pazzia, sul suo essere compulsivo e violento, aspetti di cui in genere si parla di più. Alcuni miei amici psicologi mi dicevano che in un certo senso tutte le psicosi dopo un po’ di anni “autoguariscono”, subentrano cioè dei meccanismi di pazzia che fanno sì che la persona si crei un piccolo mondo nel quale vive. Campana negli ultimi anni pelava le patate, preparava le polpette per altre persone che stavano in manicomio. Forse non ci stava poi neanche tanto male, per quanto si possa stare bene in quella condizione».

 

«Approfondendolo, quale idea ti sei fatta sulle cause della sua pazzia?

«Su Campana ci sono varie scuole di pensiero ed io non sono nessuno per poter azzardare delle ipotesi, ma secondo me – e forse dico un’eresia – i Canti Orfici sono stati il suo incubo, una persecuzione. Scrivere lo faceva esistere. E lavorare a quel libro per essere pubblicato a tutti i costi lo ha mandato fuori di testa. Bisogna considerare pure che era dotato di un’intelligenza sovraumana se si pensa che da autodidatta aveva imparato cinque lingue. E una persona così, che vive in un paesino di poche anime, in un contesto familiare piccolo borghese, con dei punti di riferimento precisi, per forza va fuori binario. A me comunque la sua vita mi ha interessato, l’ho trovata molto teatrale, ricca di immagini meravigliose funzionali al palcoscenico».

 

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