La linea della palma

Sciascia e la tragedia del male che avanza, a vent'anni dalla sua morte.
Leonardo Sciascia

Leonardo Sciascia è stato uno dei più importanti scrittori del secondo Novecento italiano. Scavando dentro le piaghe della sua amata Sicilia, per primo portò allo scoperto, fin dagli anni Sessanta, il drammatico malessere causato dalla mafia, che egli vedeva come madre di tutte le altre mafie.

Sentì acutamente la tragedia del male che avanzava sempre più nell’umanità, divenuta per lui teatro di azioni devastanti e moralmente deprecabili.

Volle combattere con la forza delle parole e dell’ispirazione poetica contro questo male, portandolo alla luce e subendo per questo non poche persecuzioni, tanto da scrivere: «Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendio della scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio. Sì, sono un uomo in rivolta e, proprio per questo, sono un uomo solo».

Ma gli era di conforto sapere che c’era stato qualcun altro nella Storia che era rimasto solo e abbandonato da tutti. Infatti, raccontava ad un amico, per lui contavano solo due avvenimenti nella storia: la Passione di Cristo e la rivoluzione francese.

 

Oggi, a venti anni dalla morte, prendiamo coscienza di avere avuto in Sciascia non solo un grande scrittore, ma anche uno dei più acuti osservatori della realtà italiana, la cui dimensione poetica a tratti diventava profetica, e forse per questo poco amabile in una società che in tanti strati aveva preferito praticare la politica dello struzzo, per non vedere le contraddizioni che laceravano la convivenza umana.

Aveva intravisto nel “cancro” della Sicilia una terribile minaccia per l’intera Italia e questo quando la parola mafia ancora non si pronunciava.

Lo testimonia quel piccolo ma fondamentale romanzo, Il giorno della civetta, nelle cui pagine c’è tutto quanto oggi è venuto tristemente allo scoperto: tangentopoli, il silenzio omertoso di tanta gente, la diffidenza verso la politica, ma anche l’uso della politica per fini propri, l’errato senso della famiglia e la tacita convivenza tra certa politica e la criminalità organizzata.

Metaforicamente, parlava della “linea della palma” che avanza: «Gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno. Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato. E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma».

Un’Italia sofferente che egli amava appassionatamente e che era il motivo ispiratore dei suoi scritti e delle sue poesie.

 

Di convinzioni non religiose egli si è sempre fermato sulla soglia, intravedendo alcune volte una dimensione oltre l’immanenza, ma mai osando penetrarla.

È il tema di fondo di uno dei suoi ultimi libri Il Cavaliere e la morte, dove volle in copertina una nota incisione di Albrecht Dürer che ha per titolo Il cavaliere, la morte e il diavolo, ma senza il diavolo, perché a suo giudizio l’uomo aveva ormai raggiunto tale capacità di fare il male, che il principe delle tenebre ne era declassato.

Questo romanzo oggi assume una valenza simbolica nella sua poetica, ma getta anche uno squarcio di luce sul suo animo combattivo e mai arreso, su quel desiderio di volare alto. Infatti, di fronte al dilagare del male e dell’impunità, il protagonista del romanzo avverte l’impotenza umana, accorgendosi di essere arrivato come al «cancello della preghiera», intravedendola però «come un giardino desolato e deserto».

Una conclusione apparentemente senza fede e speranza?

Glielo chiese l’amico scrittore Giorgio Calcagno e Sciascia così rispose: «Ci sono due versi altissimi di Dante, nell’ultimo canto della Commedia: “Chi vuol grazia e a te non ricorre,/ sua desianza vuol volar senz’ali”. Ecco, la preghiera è questo: un desiderio che trova ala. E non importa se non troviamo più a chi rivolgerla. C’è nel personaggio del mio racconto questa desianza che l’uomo sia degno della vita. E mi piace anche ricordare questa preghiera di Tobino: “O Dio, chiunque tu sia,/ o non esista,/ o trascorra come concetto/ le nostre menti,/ benedici anche me”».

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