La fraternità all’haitiana

Mons. Pierre-André Dumas, presidente della Caritas locale, fa il punto sull’emergenza. E apre nuovi spiragli per il suo Paese
Haiti

È vescovo di Anse-à Veau et Miragoâne, mons. Pierre-André Dumas, ed è pure presidente di Caritas Haiti. Lo incontro nella parrocchia di Saint-Pierre, a Port-au-Prince, una delle poche chiese della capitale rimaste in piedi dopo il terremoto dello scorso anno. Di fronte al luogo di culto, l’ampia piazza alberata accoglie ormai da un anno e mezzo un centinaio di tende, occupate da 1200 persone. È un contesto che fa pensare il vescovo haitiano, una delle teste pensanti più acute della Chiesa locale.

 

Che cosa dire del nuovo presidente Martelly, che è di professione cantante?

«È una scelta che va oltre la destra e la sinistra, oltre gli apparati, spesso corrotti, della politica haitiana. È il frutto della delusione di una certa politica. Il popolo ha voluto dare un segnale senza rompere. In fondo il risultato del voto dimostra la saggezza del popolo haitiano, che vuole che i nuovi politici mettano come priorità il bene comune del Paese, il bene della persona umana haitiana. Il popolo vuole che si ritrovi quella fraternità che è stata proprio qui valorizzata prima ancora che lo si facesse in Europa. Una fratellanza di sangue e ancor più di popolo, una fratellanza che viene da Dio, unico Padre».

 

C’è molto ancora da fare nell’emergenza post-terremoto…

«Ci sono tanti cantieri aperti: quello dell’abbandono di tanti bambini, quello della violenza sulle donne, quello dell’enorme disoccupazione, quello della valorizzazione della gioventù che permane sotto le tende. C’è molto da fare ancora».

 

Cosa dire del ruolo delle Ong in quest’emergenza?

«I primi otto-dieci mesi sono stati accompagnati dal buon lavoro delle Ong, che hanno dato un aiuto insostituibile all’emergenza post-terremoto. Qualsiasi stato sarebbe fallito senza l’aiuto di tali organizzazioni. Ora però si presentano problemi gravi, e si evidenzia l’incapacità molto frequente delle Ong di portare ad un vero sviluppo della popolazione. Bisogna che lo sviluppo si basi sui valori, sulle tradizioni e sulla cultura locali, ma questo non viene rispettato dalle Ong. Certamente quanto sperimentato ad Haiti sarà utile per altre crisi simili. Ma ora non servono a nulla le macchinone delle organizzazioni non governative, mentre il 60-70 per cento dei fondi serve a mantenere il loro personale, e la gente continua a soffrire in modo indicibile. Haiti è una piaga aperta dell’umanità, ma anche una grande scuola da cui tutti dobbiamo imparare. Non sono barbari gli haitiani, ogni uomo è un fratello, una persona. Nel far questo le Ong più piccole di cooperazione tra categorie sono molto utili. Dalla mia diocesi ho mandato 30 contadini a imparare alcune tecniche di produzione in Messico, e poi dei contadini messicani sono venuti da noi per capire il contesto nel quale si opera. Ora hanno trovato insieme delle modalità di coltivazione molto interessanti».

 

La cultura haitiana, così ricca di tradizioni, è stata depauperata?

«Se prendiamo la questione dal lato della conoscenza intellettuale, allora sì, abbiamo perso delle “teste” lucide. Ma quando parliamo della cultura in senso più globale, sentire la Storia col popolo, allora la nostra cultura è ancora vivissima. Non tutti sanno all’estero quanto grande sia stata l’importanza della cultura haitiana per l’elaborazione di certe conquiste dei diritti dell’uomo e della democrazia. È la libertà e la fraternità di cui parlava Toussaint Louverture. Gli uomini erano stati liberati, ma bisognava anche chiamarli fratelli. Tutti erano liberi, non solo l’homo europeus ma l’homo tout court. Ora si tratta di far sì che questi non siano solo slogan, ma realtà concreta. Lo schiavo diventa fratello anche oggi, in queste gravissime situazioni che attraversiamo. La fraternità deve ripartire da Haiti, di cui dobbiamo ascoltare il grido».

 

Il ruolo della Caritas, di cui lei è presidente, le sembra utile per la società haitiana?

«Ha fatto tanto, la Caritas, nei primi tempi dell’emergenza: kit igienici, acqua potabile, tende, case provvisorie, microcredito… Ma per essere oggi efficace e profetica deve ritrovare la missione globale della Chiesa, non solo rispondendo alle emergenze come una qualunque delle Ong. Bisogna che si sia fieri di essere cattolici impegnati nel sociale e nelle emergenze, senza disperdere le forze ma cercando di parlare in coro, facendo pressione sui governanti a favore del bene comune degli haitiani, non solo partendo dalla Chiesa, ma essendo Chiesa».

 

Cosa manca alla Chiesa haitiana? E quale la sua ricchezza?

«La Chiesa haitiana è molto vicina alla popolazione, è presente ovunque nel Paese, è la sola istituzione veramente presente anche nei posti più isolati e più poveri. Dobbiamo forse mettere in pratica l’invito della Conferenza dei vescovi latino-americani e caraibici: entrare in una grande conversione pastorale. La nostra Chiesa haitiana non ha un vero piano pastorale. Ci manca una nuova evangelizzazione ben articolata e coordinata, che abbia al centro l’uomo e la donna haitiani, che consideri il laicato come la sua forza, che abbia una reale formazione dei propri agenti pastorali. Questo contribuirebbe a risollevare Haiti dalla sua miseria. Non ho nostalgia di una Chiesa forte e potente che dia ordini politici. È quasi meglio avere l’umiltà di considerarci una Chiesa di minoranza, ma di una minoranza qualificata che sappia far valere la sua missione orizzontale e verticale. Haiti ha fatto l’esperienza di essere Gesù abbandonato, un’esperienza radicalmente evangelica. Non viviamo ciò arrabbiati, a denti stretti: nella nostra Chiesa, malgrado la povertà, malgrado la situazione drammatica, la liturgia è gioiosa, animata… Dobbiamo mantenere questa forza della ricchezza della fede, di apertura alla trascendenza, di poter conservare lo spirito di festa. Un popolo che cessa di festeggiare è un popolo che ha smesso di saper vivere come Dio vuole. Anche nella sofferenza ci può essere una vera gioia».

 

I have a dream (io ho un sogno)…

«Vedere tutti gli haitiani, anche gli ex-presidenti, anche gli haitiani più controversi, tutti in una grande conferenza nazionale, tutti attorno ad un grande tavolo per la pacificazione della nostra Nazione, il suo sviluppo integrale e sostenibile, e anche per far crescere Haiti verso i valori spirituali. Possiamo trovare un modus operandi et vivendi anche con gli ex-presidenti! Ognuno deve portare la sua pietra, riconoscendo con umiltà i suoi limiti. Il compito del nuovo presidente è quello di convocare una conferenza del genere».

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