La forza che supera il colonialismo

A Patzún, negli altopiani centrali, un gruppo di indigeni maya kaqchiquel trova la via per la felicità e per l’emancipazione.
Il gruppo locale della Parola di Vita a Patzùn

Provengo con alcuni amici dal lago Atitlán. La strada è tutta curve e montagne russe, in un paesaggio di contrasti e di vegetazioni ora lussureggianti ora asfittiche, dominate dai sottili pini forniti di ciuffo che si ergono su tutto e su tutti. Chiedendo la strada, riceviamo la richiesta di passaggio da una signora sulla cinquantina e da un marmocchio dai capelli neri come la pece. Li facciamo salire. Per mezz’ora non li guarderò in faccia, ma mi lascerò cullare dalla voce della donna, nove volte mamma e tredici nonna, che dice di tornare dal mercato di San Lucas Tolimán – una località sulle rive del lago –, dove vende i vestiti da donna e bambino tipici dell’etnia kaqchiquel. Vestiti che tesse con pazienza e costanza: alcuni necessitano addirittura di un mese di lavoro, con un ricavo, se va bene, di 70 dollari. Lo stipendio medio di un mese di lavoro, in effetti.

Una voce che non dimenticherò facilmente: dolce e forte, mite e decisa, umile e orgogliosa, i contrasti tipici dell’etnia kaqchiquel, che già i conquistadores spagnoli avevano fatto non poca fatica a sottomettere: avevano installato il quartier generale delle colonie centroamericane dalle parti di Iximché, ad una trentina di chilometri da Patzún, capitale dei kaqchiquel sin dal 1463, e cioè dalla decisione del loro re, K’icab il Grande, proprio per stringere con loro alleanza contro i k’iche. Ma ben presto s’erano accorti, gli spagnoli, che non avrebbero potuto piegare la loro resistenza culturale, umile ma anche orgogliosa. Così trasferirono la capitale prima a Ciudad Vieja, e poi ad Antigua.

Una storia che da allora non ha più lasciato vera pace ai kaqchiquel, sfruttati prima dai bianchi (i blancos) e poi dai meticci (i ladinos), che sono meno del 60 per cento della popolazione, ma ancor oggi hanno in mano quasi tutte le leve del potere politico ed economico, nonostante la rivoluzione terminata nel 1996, con uno strascico di 100 mila morti e un sospetto di programmato genocidio – 600 villaggi maya kaqchiquel furono cancellati letteralmente dalle carte geografiche – avesse aperto speranze per una reale uguaglianza tra le etnie.
 
Arrivo dunque a Patzún, un borgo di 30 mila abitanti con una sua dignità. Gli abitanti sono tutti indigeni, o quasi. In massima parte lavorano la terra, come mostra il mercatino coloratissimo che si erge dinanzi alle due chiese affiancate in puro stile colonial, issate su una piattaforma cui si accede con scalinate scure e sbozzate dal tempo e dall’uomo, sulle quali la gente ama sedere e conversare, magari sorbendo qualche bevanda alcolica. A Patzún non è che di soldi ne circolino molti.
Saliamo per le ripidissime viuzze che salgono al colle. Un albero plurisecolare svetta contorto ma altero, pare voler imitare la postura d’una vecchietta dalla pelle di cartapecora che aggiunge un passo all’altro, mentre due bimbette dalla pelle di pesca – forse qui si dovrebbe dire pelle di mango – mi conquistano con il loro sorriso purissimamente autentico. Simile a quello della vecchietta, della stessa natura.
Ed è così che giungiamo alla casa di Rosa e Feliciano, e della figlia Magdalena, al bordo dello strapiombo, un’erta che avrà una pendenza del 25-30 per cento, da averne paura. Una casa modesta, costruita una stanza dopo l’altra attorno a un minuscolo patio interno. Ci ricevono nel salone, profumato d’erba, visto che in nostro onore hanno steso per terra il tipico tappeto vegetale riservato agli ospiti. Sul muro, ornata di palloncini, una scritta: Bienvenidos, in spagnolo, e Ütz Ipetïk, in kaqchiquel. Qualche sedia di plastica bianca, alcune panche di legno, una sorta di altare che raccoglie immagini indigene e altre della classica iconografia cattolica europea, in un affastellamento che pare ordine perfetto, l’ordine della devozione vera, che è sostanza.
Sì, perché qui a Patzún, nel gruppo locale dei Focolari, si respira autenticità. Evangelica e kaqchiquel insieme, il che non è assolutamente contraddittorio. Dinanzi a noi si accomodano una trentina di persone, di tutte le età: bambini, ragazzi, giovani, adulti e anziani. Il comitato d’accoglienza ha preparato tutto nei dettagli, chi prende la parola e quando. Un canto a cappella, Patzún dei miei ricordi, tinge l’atmosfera di note suggestive. Si parla di gruppi, incontri regolari (più volte alla settimana), lavoro nella parrocchia, gruppi di famiglie e di fedeltà alla fondatrice: la vita di un movimento attivo e vivace. Tutti ci tengono a presentarsi. Ma, poco alla volta, direi inesorabilmente, il posto centrale viene occupato dal racconto della vita vissuta dei presenti, che lascia intuire una vita dura ma un impegno a vivere il Vangelo inflessibile.
Feliciano racconta di un fratello che s’era messo con una donna appartenente a una setta, senza la volontà di sposarsi. Così ha cominciato a parlare con entrambi, a raccontar loro la bellezza e la verità insita nel matrimonio. Finché non li ha convinti, più con la testimonianza che non con le parole: «Ho cercato di convertirmi prima io, perché poi loro due potessero farlo». Ora lei si è battezzata e stanno entrambi seguendo il cammino di preparazione al matrimonio, in parrocchia.
Victoria, invece, avvolta in uno scialle di lana, racconta di un’emiparesi facciale che l’ha colpita, lei madre di nove figli: «I miei occhi hanno cominciato a lacrimare sempre di più, finché la vista si è oscurata e non vedevo praticamente più nulla. Era Gesù, Gesù abbandonato che mi visitava. Gli ho detto di sì, e cominciavo già a immaginare la mia vita da cieca quando poi la salute è migliorata. La Parola di vita diceva in quel mese: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”. Ho deciso di andare da lui».
 
È la volta di una coppia: lei si chiama Anita, lui Nazario. Hanno quattro figli, lei è domestica, lui contadino. Tre settimane fa quest’ultimo ha perso la madre: «Era un esempio di onestà e amore per noi tutti. Mentre moriva ho capito che doveva rivivere in noi con la stessa onestà e lo stesso amore». Mentre Carlos Daniel, che avrà dodici anni, racconta: «Mia mamma aveva chiesto a mio fratello di andare a prendere la segatura, ma lui non c’è andato. Allora ho capito che dovevo farlo io. E mi sono ritrovato contento».

Magdalena racconta della vita comunitaria, del gruppo di giovani che cerca di vivere l’Ideale dell’unità nel villaggio. «Non è facile ascoltarsi l’un l’altra quando si tratta di far cose concrete. Ma quello che decidiamo assieme è sempre meglio di quello che facciamo da soli». Una bella lezione di “dinamica di gruppo”, fatta senza tanti titoli di studio. Sì, perché per le ragazze e i ragazzi del posto è ancora molto difficile riuscire a portare avanti i propri studi, nonostante le capacità e l’intelligenza che tanti manifestano: il sistema educativo ed economico ancora discrimina chi è indigeno. «La nostra agricoltura – continua Fermín, spostando il discorso sulle difficili condizioni di vita – è semplice, basata sul mais. Ma siamo strangolati dai grossisti, che ci impongono sempre prezzi da fame, senza alcun appoggio dal governo».
Ed è a questo punto che Magdalena, moglie di Fermín e madre di quattro figli, se ne esce con una frase stucchevole: «Sì, lo so, qui c’è stato e c’è ancora molto razzismo, e i ladinos considerano noi indigeni come inferiori. Ma Gesù ci ha indicato l’amore per tutti, incondizionato. Quindi debbo amare anche il ministro, anche il presidente, ogni ladino».

Forse non ci si rende conto dell’ampiezza e della profondità di queste affermazioni: intuisco solamente quanti secoli di colonialismo gravino su queste semplici affermazioni categoricamente evangeliche. Una forza rivoluzionaria, certamente. Quella stessa che ha portato i contadini che sono qui davanti a me a combattere, talvolta in loro stessi, più spesso nei vicini e negli amici, la piaga dell’alcolismo, vincendola. Quella forza che li spinge a servirci gli ottimi ravioloni al mais e pollo, il boxbol, la tipica pietanza locale, lasciando alle spalle secoli di tradizionale dominio del maschio sulla femmina: abbassarsi a servire gli altri è ancora considerata nel paese debolezza o, peggio, incapacità di mantenere il ruolo del governo della casa. Questo fa una vera evangelizzazione: cambia due mondi, quello interiore e quello esteriore.

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