La forma dell’acqua vince l’Oscar

Già vincitrice del Leone d'oro a Venezia, questa fiaba drammatica di Guillermo Del Toro trionfa come miglior film, migliore scenografia e miglior colonna sonora.

Qui gli anni cinquanta non sono spensierati, morbidi e dolcemente romantici come spesso capita nel cinema americano. Non nutrono nessuna nostalgia, ma sono cupi, piovosi, tenebrosi e razzisti. Sono quelli di una corsa allo spazio malata, non sportiva ma bellica, produttrice, lei sì, di veri mostri: perché la creatura orribile – ribadisce questa fiaba drammatica di Guillermo Del Toro, con impeccabili e sontuose scenografie vintage – non è quella pescata dentro l’acqua selvaggia di un fiume amazzonico, metà uomo e metà pesce squamato, pinnato e fluttuante, ma capace al tempo stesso di strappare la carne coi suoi affilati artigli.

I mostri sono altri: sono quelli – del tutto umani e per nulla umani – che impazziscono pur di superare l’atmosfera prima dei russi, che diventano ingranaggi di un sistema generatore di odio, divisione e contrapposizione. Sono quelli che servono il potere e che da questo si lasciano mangiare inesorabilmente. Mostro, qui, è chi non rispetta la fragilità di chi gli sta di fronte, chi se ne infischia del mondo interiore del prossimo isolato, inerme, emarginato; chi non accarezza le debolezze dell’altro, ma sadicamente ne approfitta.

Mostro non è chi vive una diversità fertile, chi da una profonda solitudine ricava eccezionale desiderio e capacità di amare. Mostro non è Elisa (da Oscar, Sally Hawkins), donna delle pulizie muta per antichi traumi, eppure sognatrice e silenziosa cercatrice di amore. Mostro non è Giles, suo amico omosessuale, pittore appassionato e discriminato, e mostro non è Zelda, collega di colore di Elisa: moglie di un marito spento e donna costretta a subire violenza per il colore della sua pelle. Mostro non è il dott. Hofftetler, infiltrato russo tra gli yankee, ma prima ancora scienziato appassionato di vita, attento osservatore di un cuore che pulsa, al di là delle bandiere politiche a cui appartiene.

Mostri non sono loro perché rispettano l’indifeso e il disarmato per eccellenza, il mostro apparente che di primo acchitto spaventa perché diverso in mille cose. Ognuno di loro decide di accoglierlo l’anfibio sconosciuto: Elisa innamorandosene, addirittura; Giles, Zelda e Hofftetler saltando oltre la sottile superficie ed individuando sotto la pelle di pesce e le forme ed i colori animaleschi della creatura pescata, un battito come il loro, una sofferenza e un potenziale emotivo da difendere e sprigionare.

Per questo aiutano Elisa a liberarlo dalle catene a cui gli assetati di guerra fredda lo hanno costretto per pareggiare la trovata sovietica del cane Laika: primo essere vivente lanciato nello spazio. Giles, Zelda e Hofftetler si alleano col cuore forte di una donna minuta che baratta volentieri il suo placido anonimato per abbracciare, metaforicamente e letteralmente, la bellezza di una diversità che lei stessa conosce bene, perche è anche la sua.

Elisa intuisce la delicatezza oltre la ferocia, non si stupisce, infatti, quando trova la creatura in fuga incantata davanti al grande schermo di un cinema. Si fida di lui, concima una relazione dapprima regalando uova (simbolo di nascita) e giunge naturale lo sviluppo di un linguaggio tra i due, determinato dalla messa in comune di emozioni. I non mostri umani di questo film credono al mitologico, al magico del meraviglioso non mostro marino.

Sono eccezioni, un po’ come lo è il cinema (assai presente nel film) in un contesto ormai aggredito dalla televisione (che spunta in ogni angolo, in ogni casa di La forma dell’acqua). Sono persone che amano, che preferiscono questo gesto al potere, alla carriera, a un certo modo di intendere la politica. Questi fragili e sofferenti eroi non fuggono dalle mostruose impalcature ideologiche di quegli anni giocandosi tutto per una relazione: fanno solo politica in un altro modo, attraversando le ingombranti e rozze divisioni e bandiere per mettere l’ultimo, destinato al sacrificio, al primo posto, con dignità totale. Anche per questo il film onirico e visionario di Guillermo del Toro, classico e insieme attuale, già Leone d’oro a Venezia 17, corre per la bellezza di tredici Oscar.

 

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