La Fiat auto sempre più americana

Marchionne sta trasformando l’industria automobilistica torinese in industria automobilistica multinazionale. I rischi e le conseguenze per i lavoratori. L’uscita da Confindustria
Sergio Marchionne

Quasi fosse una azienda di stato, per oltre mezzo secolo, la Fiat è stata tenuta la riparo dai concorrenti stranieri e per costruire stabilimenti in aree del Paese che avevano grande bisogno di lavoro, quelli che adesso tende ad abbandonare, ha assorbito una notevole fetta delle risorse pubbliche italiane destinate alla ricerca ed alla innovazione industriale.

 

Grazie anche a tutte queste risorse pubbliche la Fiat è ancora sul mercato, è addirittura diventata una multinazionale e come tale adesso adotta una strategia di tal fatta: quando separatolo da quello industriale il settore auto è diventato azionista di maggioranza di Chrysler, era evidente, visto che è sempre il pesce più grosso che inghiotte quello più piccolo, che esso diventava statunitense, ovunque fosse mantenuta la sede legale della società; ne era un chiaro sintomo il programma di montare nello stabilimento storico torinese della Fiat dei Suv costruiti negli Usa: gli stabilimenti italiani erano diventati periferici perché il cuore e forse anche il cervello dell’azienda erano altrove.

 

È comprensibile che i rappresentanti dei lavoratori chiedano che Fiat ricordi quanto in passato ha costruito con i suoi lavoratori italiani ed ottenuto dallo Stato italiano, ma la realtà è che non vi sono argomenti legalmente validi per obbligarla ad agire diversamente: tali impegni andavano definiti quando si concedevano quei benefici!

 

Adesso Marchionne ha firmato l’uscita da Confindustria, per liberarsi dagli obblighi che aderendovi gli si imponevano, visto che nella sua ottica italiana essa aveva firmato con i sindacati accordi che riducevano l’impatto di quanto con l’ultima manovra economica è diventato legge dello Stato; la possibilità cioè di concordare tra industrie e sindacati locali contratti diversi da quelli nazionali, che considerino anche la possibilità di licenziare dei lavoratori; contratti simili a quelli che Marchionne aveva già ottenuto dopo molte lotte con alcune aziende e che intende estendere a tutte la sue attività italiane.

Quella clausola, lo abbiamo capito ultimamente, non è farina del sacco del governo, ma è una di quelle imposte dalla Banca centrale europea come condizione per continuare a comperare i nostri titoli di Stato quando si teme che essi rimangano invenduti: è una clausola che se applicata supera l’articolo 18 della legge sul lavoro che protegge il posto fisso dei lavoratori delle aziende medio grandi fino al loro fallimento.

 

La provenienza europea del diktat, fa pensare che gli specialisti del settore considerino che essa potrebbe incidere notevolmente sull’economia del Paese, inducendo la creazione di posti di lavoro in aree che ne hanno disperatamente bisogno ed in cui la rinuncia, in caso di nuove attività, della protezione del posto fisso, non sembra abbia la massima priorità; se una azienda è produttiva, nessun imprenditore vuole rinunciare a coloro che la rendono tale.

Tanti auguri a Marchionne ed alla Fiat targata Chrysler, speriamo che trovi la convenienza economica a continuare ad investire in Italia. Ma attenti d’ora in avanti a nuove concessioni in nome della "industria automobilistica italiana"!

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