La fede che spinge a rischiare

Son passati venticinque anni dalla morte di padre Pellegrino. Si era ritirato a Vallo: lo aveva convinto la bellezza di una comunità lievitata dallo spirito del Concilio e dal carisma dell’unità.
Michele Pellegrino con Igino Giordani

Sei novembre 1972: 10.000 giovani gremiscono il Palasport di Torino. La manifestazione prevede, dopo la rinuncia alla cena per devolverne l’equivalente in denaro ai poveri, un discorso di Dom Helder Camara, arcivescovo di Olinda-Recife, in Brasile, ovunque noto per la sua lotta appassionata a favore della giustizia.

 

A Pentecoste dell’anno successivo, l’esperienza si ripete con il cardinal Suenens, arcivescovo di Malines-Bruxelles, in Belgio, uno dei moderatori, e non solo a parole, del Concilio Vaticano II. Lo affianca fratel Carlo Carretto, già dirigente dell’Azione cattolica italiana e ora piccolo fratello di Gesù nella famiglia religiosa di Charles de Foucauld.

Qualche anno prima, era stato accolto a Torino Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi. E qualche anno dopo vi sarà accolta Madre Teresa di Calcutta: nella chiesa dell’Arcivescovado, messa a disposizione del Sermig di Ernesto Olivero.

Michele Pellegrino – il cardinale che si faceva chiamare “padre” e portava sul petto una croce di legno – è attento ai fermenti giovanili e invita a Torino grandi e umili profeti della speranza per dar respiro e concretezza all’utopia del “mondo nuovo” che accende i giovani nella stagione burrascosa del dopo ’68. Dice: «La speranza, per sostenersi, per fortificarsi, ha bisogno di comunicazione. Quando si dà agli altri, e soprattutto quando ci si dà, siamo prima di tutto noi a sentire che rifiorisce la speranza e la gioia in noi».

 

Difficile dire quanto questa scuola sia stata decisiva, per tanti, nel momento cruciale delle decisioni che orientano l’esistenza. Non vi dev’essere nella Chiesa – esortava Pellegrino – «la paura dipendente da poca fede. Oggi, spesso, non si ha abbastanza fede nello Spirito che guida la Chiesa, che spinge anche a scelte audaci, a rischi calcolati».

Son passati venticinque anni dalla sua morte. Si era ritirato a Vallo: lo aveva convinto la bellezza semplice di una comunità lievitata dallo spirito del Concilio e dal carisma dell’unità. Un ictus lo inchiodò a una carrozzella nella Piccola casa della divina provvidenza, il Cottolengo.

 

Fu la sua ultima cattedra. «Gesù ci ha voluto dire – aveva rimarcato nella sua ultima omelia – “Io ho vinto il mondo”: e cioè con la croce sembra che io sia sconfitto, in realtà la mia croce è quella che porta al mondo la salvezza. I cristiani che vogliono veramente seguire Gesù, molte volte non è che facciano fortuna. Quel che conta è la fede, la fede che si traduce nell’amore, nella coerenza della nostra vita a ciò che crediamo».

Fu questo lo stile evangelico di padre Pellegrino. E ancora gliene siamo immensamente grati.

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