La diagnosi della crisi

L’enciclica di papa Francesco letta dal politologo Alberto Lo Presti. «La fede non è la risorsa per chi ha deciso di disimpegnarsi, non annulla la libertà umana, pone la politica nella dimensione del bene comune. Niente leader muscolari, ma comunità civili più fraterne»
L'enciclica Lumen Fidei

È evidente che per uscire dall'odierna crisi non basterà riparare i guai del sistema economico, rendere più solido il mercato del lavoro, correggere i danni prodotti dalle speculazioni finanziarie… nessuno più è disposto a credere che l'enorme difficoltà in cui versa la nostra civiltà sia solo il frutto dell'inceppamento di qualche meccanismo sociale. La crisi ha radici più profonde; la Lumen fidei può aiutarci a diagnosticarla. Essa è innanzitutto figlia di quell'individualismo che ha ridotto la fede religiosa a opzione privata della nostra esistenza. L'enciclica non si sofferma, ovviamente, sulla descrizione della decadenza culturale e morale nella quale versa la politica. Ma non ci vuole molto a misurarne la gravità. Basti guardare all'assurda situazione, dove il richiamo alla sobrietà, alla compostezza, al buon costume, venga scambiato da qualcuno per puritanesimo liberticida.

Dal punto di vista politico, l'enciclica di papa Francesco c'insegna che la fede: non è la risorsa per chi ha deciso di disimpegnarsi nel mondo; non annulla la libertà umana, ma la potenzia, perché consente all'uomo di scoprire la dimensione salvifica implicita nella storia; pone la politica al servizio di un disegno assai più grande di quello della difesa dell'interesse generale: il perseguimento del bene comune, nella sua naturale dimensione sociale (non individuale).

L’enciclica sottolinea come l'opposto della fede sia l'idolatria, la quale pone l'uomo al centro del creato, fulcro dell'ordine, dispensatore di tutti i benefici. Anche questo insegnamento è al servizio del cambiamento della nostra cultura politica: le mistiche espressioni del leaderismo muscolare andate in onda negli scorsi anni sottolineano come non sia più tempo dell'uomo della provvidenza, nessuna unzione speciale può essere invocata per trascinare la società fuori dal pantano. Questo brano della Lumen fidei ottiene uno speciale accreditamento proprio sul terreno politico. Soprattutto qui, infatti, è avvenuto che la separazione di fede e ragione politica abbia significato finire nell'abbraccio mortale di un dio terreno – un leader di partito – verso il quale ci si genuflette, indecentemente.

La Lumen fidei riabilita l'azione politica, restituendogli il ruolo fondamentale di provvedere alla vita buona di ciascuno e di tutto il corpo sociale. Essa prende le distanze dalle concezioni utilitaristiche, secondo le quali i membri del consorzio umano trovano ragionevole vivere assieme perché ne ravvisano la convenienza, l'utile. Non è sufficiente questa consapevolezza per assicurare la piena dignità a ciascuno. Forgiando la propria concezione politica sulla fede in Dio, la saldatura fra ciascuna persona della comunità «nasce dall'amore e segue la dinamica dell'amore di Dio» (§ 50), dunque «si pone al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace» (§ 51). La famiglia naturale è il modello di tale dinamica sociale: da essa si sprigionano i valori capaci di arricchire la politica ai livelli di aggregazione più complessi.

Nella relazione di fede si può fare esperienza della paternità e misericordia di Dio, dalle quali trarre il fondamento per la fraternità nei rapporti civili. Essa non è solo relazione pacifica, buone pratiche di rispetto e tolleranza: la sua misura è la pienezza dell'unità in Gesù, la sua salvezza come dono. Dunque, l'unità è meta della fraternità vissuta nella storia delle vicende umane. Anche per questo, la luce con cui l'enciclica guarda alla politica è nella direzione che nelle pagine di questa rivista abbiamo spesso chiamato in causa. Speriamo che l'enciclica Lumen fidei non venga ignorata dalle nostre classi dirigenti.

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