La danza della vita

Un capolavoro di arte funeraria del V secolo a.C. proveniente da Ruvo di Puglia testimonia il fecondo incontro tra cultura ellenica e quella dei popoli italici.

Diverse sono le isole e località greche le cui danze locali, consapevolmente o meno, attingono al patrimonio mitico dell’Ellade: una di esse, la ghéranos o “danza delle gru”, prevede danzatrici avvinte per le mani in una catena ininterrotta nella quale ciascuna porge la destra alla compagna di dietro e la sinistra a quella davanti. E proprio questa danza ha avuto 186 anni fa un puntuale riscontro iconografico nella tomba dipinta rinvenuta in una necropoli pugliese. Ne ripercorriamo la storia.

Ruvo di Puglia, in posizione intermedia tra Bari e Canosa, è stata fin dalle epoche più remote punto di contatto tra diverse culture, sia quelle fiorite intorno al mar Adriatico, sia quelle dell’area tirrenica ed in particolare del mondo etrusco e campano etruschizzato. A fondare il primo abitato furono i peuceti, uno dei tre gruppi etnici derivati dagli iapigi, popolazione illirica. Tra l’VIII e il V secolo a. C. il piccolo villaggio venne colonizzato pacificamente da greci provenienti dall’Arcadia e denominato Rhyps. Grazie all’estensione del suo territorio, all’accresciuta popolazione e agli scambi commerciali con la madrepatria, la città – dapprima alleata di Atene, poi di Taranto – conobbe il suo massimo splendore intorno al IV secolo a. C., raggiungendo al tempo stesso l’apice della potenza militare. Entrata nel 324 nell’orbita di Roma col nuovo nome di Rubi, godette di numerosi privilegi e crebbe d’importanza quale tappa della via Traiana. Racconti leggendari fanno di Ruvo anche una delle più antiche diocesi cristiane, in seguito al passaggio di san Pietro che nel 44 avrebbe lasciato come primo vescovo della città e della regione pugliese san Cleto, futuro terzo papa.

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La riscoperta della storia antica di Ruvo risale all’Ottocento ed è merito delle famiglie nobili locali, le quali allestendo le proprie collezioni private frenarono la compravendita delle migliaia di reperti peuceti, greci e romani recuperati dai cacciatori di tesori nelle ricche necropoli ruvestine e sparsi ora nei musei di tutto il mondo a testimoniare il prestigioso passato della città. Tra questi, gli affreschi della tomba del guerriero (o delle danzatrici) conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Mann).

Scoperta il 15 novembre 1833 nella via dei Cappuccini (oggi corso Cotugno), la tomba apparteneva ad un personaggio apulo d’alto rango a giudicare dal ricco corredo di armi e altri oggetti utili a intraprendere l’ultimo viaggio, ma più di tutto impressionò gli studiosi l’insolita scena di danza che decorava tutte e quattro le pareti. Purtroppo il ciclo affrescato venne smantellato da ricercatori senza scrupoli e suddiviso in lastre a scopo di vendita; solo sette delle dieci originarie confluirono nelle collezioni borboniche napoletane, mentre delle restanti tre (forse le più danneggiate) si persero le tracce.

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Per fortuna un acquerello di Vincenzo Cantatore, realizzato subito dopo la scoperta, documenta il numero e il posizionamento delle figure: cinquantaquattro danzatrici ammantate, distinte in due file, e tre giovanetti in bianche vesti, uno dai quali suona la lira o eptacordo, a guida del corteo. Si intravedono appena alcuni festoni di melagrane, frutti tipicamente legati alla simbologia dell’Oltretomba.

Nel nuovo allestimento della sezione Magna Grecia inaugurata il 30 maggio al Mann, in una delle due sale riservate ai materiali provenienti da Ruvo sono nuovamente visibili le lastre con figure femminili unite nella catena della ghéranos che da sinistra avanza verso destra. Se la danza rimanda all’epoca in cui Rhyps era sotto l’influenza ellenica, l’abbigliamento rispecchia la cultura apula: lunghe vesti complete di mantelli policromi, talora arricchiti ai bordi da decorazioni a motivi geometrici, coprono le teste ricadendo ben oltre il giro di vita; le fronti sono strette in una benda rossa, le tempie adorne di fermatrecce circolari in oro, i piedi portano calzari a punta anch’essi di colore rosso; roseo è l’incarnato dei volti, le labbra d’un colore più intenso, le mani affusolate.

Il significato della scena può essere ricondotto sia alla sfera funeraria, sia a quella mitica, quale danza liberatoria che i giovanetti ateniesi destinati ad essere sacrificati al Minotauro eseguirono a Delo, di ritorno da Creta, per celebrare l’uccisione del mostro da parte di Teseo. Una danza – scrive in proposito Plutarco –«che riproduce i giri, i passaggi del Labirinto, consistente in contorsioni ritmiche e movimenti circolari. Gli antichi la chiamarono “danza delle gru”, giustificando spesso la denominazione con la disposizione dei ballerini in fila indiana, come fanno gli uccelli migratori».

Confronti con il mondo etrusco e campano testimoniano appunto come le gru in cerca della giusta rotta verso l’estate africana venissero spesso rappresentate, in riferimento al mondo funerario, quali immagine del viaggio oltremondano.

Ma il sereno rituale della scena affrescata richiama anche l’idea orfico-pitagorica della morte liberatrice che permette al defunto di ricongiungersi all’unità cosmica al suono dell’eptacordo, strumento considerato più adatto del lamentoso flauto ad accompagnare il trapasso, anche per il significato simbolico che il numero sette assumeva nella scuola filosofico-religiosa magno-greca fondata da Pitagora.

Nell’originario progetto iconografico degli affreschi di Ruvo le danzatrici erano disposte a file di diciotto sui lati lunghi e di nove su quelli brevi, guidate da tre figure maschili, fra cui il musico: non a caso l’insieme obbediva ad un criterio numerico basato sul tre e sui suoi multipli.

La tomba è quindi una straordinaria testimonianza di una cultura – quella delle aristocrazie apule fra la fine del V e gli inizi del IV a.C. – capace di assumere con originalità e vigore le influenze provenienti dalla Magna Grecia e dal mondo etrusco-tirrenico, portando il proprio specifico contributo alla grande fioritura della civiltà ellenistico-romana.

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Se proviamo ora a immaginare lo svolgersi della coreografia attorno al corpo del defunto, possiamo ammirare l’ondeggiare dei chitoni color ocra, rosso o celeste, udire il fruscio delle vesti e il passo cadenzato delle danzatrici al ritmo dato dalla lira. A un segnale del conduttore, la catena gira su sé stessa senza interrompersi e inverte la direzione: quasi a riavvolgere il provvidenziale filo di Arianna che ha permesso la riuscita dell’impresa di Teseo e la liberazione dei giovanetti dal Labirinto. Accompagnato da questo continuo movimento circolare, che sprigiona armonia e attenua l’angoscia di fronte all’ignoto, il defunto prende commiato dall’intreccio vitale della comunità di cui ha fatto parte, ma solo per rinascere e unirsi ad un altro cerchio: quello dei destinati ad una vita migliore, senza fine. Tutto questo dicono e rendono misteriosamente presente, vivo, le danzatrici di Ruvo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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