La crisi greca e noi consumatori

La situazione ellenica è un avvertimento per le altre nazioni: la crisi iniziata nel 2007 continua e rischia di allargarsi. «Nessun allarmismo cominciare subito a modificare consumi e stili di vita», dice Alessandra Smerilli, docente di economia politica.
crisi grecia

Si tira un sospiro di sollievo dopo il sì della Germania alla concessione di aiuti alla Grecia sull’orlo di un fallimento economico e finanziario. Ma non sono questi interventi tampone, soluzioni radicali alla crisi che dal 2007 ha investito l’economia mondiale. Ne parliamo con Alessandra Smerilli, docente di economia alla pontificia università Auxilium di Roma

Analizziamo la situazione della Grecia…

La Grecia si trova in uno stato d’insolvenza, cioè ha una spesa pubblica fuori controllo e non è in grado di assolvere agli impegni internazionali. I suoi titoli non sono rimborsabili e quindi questo ha ripercussione sui mercati e sugli investitori. C’è indubbiamente una responsabilità del Governo che non è riuscito a stringere sulla spesa ricorrendo magari a misure impopolari, come lo sono di solito i tagli a sanità e servizi sociali. Temendo contestazioni ha agito molto tardi e non ha preso misure drastiche, come questi casi richiedono. D’altra parte c’è anche una responsabilità dell’Europa, che non è intervenuta subito, per motivi elettorali.

Quali i rischi per l’Europa.

Partiamo dal concetto che tutte le economie sono in qualche modo legate, per cui le ripercussioni ci saranno e già si annunciano. Si comincia a parlare di Spagna, Portogallo, siamo in un circolo. In questi mesi in cui di crisi finanziaria si è parlato di meno ci siamo illusi che fosse finita. In realtà non è così. La gente continua a consumare e a vivere al di sopra delle proprie possibilità e questo vale anche per gli stati. Certo alcuni sono più a rischio di altri. L’Italia, come gli Stati Uniti, ad esempio hanno una spesa pubblica altissima, ma continuano a funzionare gli altri elementi fondamentali dell’economia: la produzione, l’occupazione e per questo sono più sicuri e ritenuti tali anche dagli altri.

 

La concessione di aiuti alla Grecia è stata salutata da alcuni come esempio di solidarietà fra Stati. E’ proprio così?

Mi sembra eccessivo parlare di solidarietà, anche perché altre esperienze come il vertice di Copenaghen dimostrano che lavorare per il bene comune in Europa e nel mondo non è proprio semplice e spontaneo. Dobbiamo dire invece che la concessione di aiuti è necessaria a tutto il sistema economico europeo, perché se uno stato va giù, rischia di trascinare altri. Per cui ognuno cerca di correre ai ripari e di sostenere anche il prezzo di questi aiuti per impedire conseguenze più gravi. D’altra parte, di fronte alla posizione di alcuni miei colleghi economisti, i quali sostengono che l’Europa dovrebbe lasciar fallire (ma ricordiamoci che lo Stato non è un’impresa e il fallimento sarebbe una catastrofe) la Grecia, allora forse sì, nel gesto degli aiuti possiamo intravvedere la solidarietà.

Viene da dire che l’economia non abbia più una direzione etica…

Non è che la direzione etica c’era prima e adesso non c’è più: forse proprio grazie alla crisi si potrebbe intravvedere su quali basi etiche costruire una nuova economia. Ci sono responsabilità dell’economia, ma equamente divise tra privati e pubblico. Perché se è vero che delle banche hanno offerto titoli tossici e che gli Stati si sono rivelati finanziariamente deboli e poco capaci di controllo, è altrettanto vero che questi titoli hanno trovato acquirenti. La crisi finanziaria ha indubbiamente spostato gli investitori sui titoli di Stato, molto più rispetto al passato quando i titoli rischiosi erano molto più quotati, ci si sentiva garantiti perché uno Stato non può fallire e può sempre assolvere ai debiti. Per cui si investe talvolta in modo indiscriminato. Ma quando accade che uno Stato fallisce si ingenera nel mercato non solo una crisi economica, ma anche una crisi di fiducia ed un’incertezza paralizzante, che colpisce proprio risparmiatori e investitori.

Le agenzie di valutazione, come Standard & Poor’s, creano solo allarmismi e alla fine incidono poco sul mercato reale?

Che esistano agenzie indipendenti di valutazione degli Stati, della loro governante e dei titoli finanziari è indubbiamente un bene. Uno stato, un ente finanziario non può autovalutarsi. Certo non sono determinanti sul mercato, ma poiché le loro relazioni godono di grande stima, indubbiamente vengono riconosciute e tenute in considerazione e naturalmente si spostano capitali e investimenti in base alle loro analisi. C’è anche da aggiungere, però, che non è sempre facile trovare agenzie veramente indipendenti e che non abbiamo alcun interesse particolare nei confronti di ciò che vanno a valutare.

Sembra ora di non aver imparato granché dal recente passato. Il consumatore, cosa può fare?

Anzitutto niente allarmismi. Dobbiamo prendere coscienza che siamo in un momento complesso e quindi i livelli di consumo e di spesa devono cambiare sia per i singoli che per gli Stati. La crisi ci avverte che dobbiamo cambiare stili di vita, che dobbiamo abbandonare alcune abitudini e che non si può viaggiare su un livello di molto superiore alle proprie possibilità. Gli acquisti a rate ad esempio testimoniano che le famiglie non risparmiano ma si trovano a spendere ciò che non possiedono e si indebitano per il futuro. Queste modalità di spesa hanno fatto scattare la crisi Usa. Per cui occorre cominciare subito e tornare a modelli di vita più sobri, senza rimpiangere il passato o aspettare impazientemente che tutto torni come prima. E di solito in periodi come questi le minoranze profetiche possono tracciare un cammino. Ma soprattutto occorre un nuovo patto tra politica, economia e cittadini, perchè si riesca a governare la globalizzazione, e questo sarà il grande tema dei prossimi anni.

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