L’“eresia” economica che libera dalla nuova schiavitù

Alla scoperta delle radici profonde dell’economia civile nell’intervista a Francesca Daldegan, studiosa del pensiero di Antonio Genovesi. La rottura tra economia e democrazia e la necessità di riscoprire lo “sguardo dell’altro”
Lavoro in catena di montaggio

Alla vigilia dell’inaugurazione della Scuola di economia civile (Sec) in programma durante l’evento di LoppianoLab è opportuno andare alla radice del concetto di economia civile con l’aiuto di Francesca Dal Degan, studiosa e ricercatrice presso l’università di Losanna e l’Istituto universitario Sophia di Loppiano, che ha curato la riedizione dello storico testo di Antonio Genovesi “Lezioni di Economia Civile”. Come riporta la citazione di Leonardo da Vinci stampata sul depliant di presentazione della scuola, «chi s’innamora di pratica senza scientia è come il nocchiere che entra in naviglio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada». In effetti, siamo nel mezzo di una tempesta con la maggioranza dei nocchieri al timone che usano una bussola che punta nella direzione sbagliata. Siamo ancora in tempo per rimediare e non naufragare del tutto? E quale rotta seguire?

Perché è venuto il tempo di riscoprire l’economia civile?
«Seppure l’economia sia nata come attività concreta a partire dall’ottocento, con Ricardo e J. S. Mill ha cominciato ad essere studiata attraverso la costruzione di modelli astratti che potessero descriverne i funzionamenti individuando i fattori principali coinvolti nei processi economici. Il valore della riflessione di Genovesi è stato disconosciuto perché la scienza economica dominante ha adottato un modello basato su un’idea di razionalità che vede come proprio soggetto l’individuo animato dal desiderio di perseguire il proprio interesse sulla base di un calcolo massimizzante delle opportunità (homo oeconomicus)».

Cosa ha comportato questo orientamento prevalente?
«Il modello adottato, che si fonda su un’idea di uomo auto-interessato e individualista, descrive il comportamento umano secondo una logica che per definirsi non ha bisogno di tener conto della presenza e dell’azione dell’altro se non in senso strumentale. Così le teorie proposte da economisti come Genovesi o Sismondi che non potevano far rientrare le proprie riflessioni in un modello che richiedeva di astrarre da una visione dell’uomo più ricca furono dichiarate eterodosse o inconsistenti dal punto di vista logico e scientifico».

Ritorniamo dunque all’eresia?
«Oggi anche in ambito scientifico si sta attuando una revisione delle categorie che hanno costituito lo scheletro della teoria economica dalla metà dell’ottocento ad oggi fornendo “gli occhiali” per vedere nella realtà i fenomeni che all’interno di quella teoria non possono trovare senso e funzione. Soprattutto si sta cercando di riattrezzare la scienza economica con strumenti adeguati a cogliere la natura relazionale della persona e la “razionalità” di un agire improntato alla mutua assistenza o alla reciprocità. È dunque il paradigma dell’attuale scienza economica che deve essere modificato al fine di cogliere la ricchezza delle riflessioni di autori come Genovesi».

Quindi, alla radice, vi è la pretesa di arrivare a cambiare il discorso scientifico economico contemporaneo?
«L’idea che spinge e sostiene in questo percorso è basata sul riconoscimento che le strutture proprie dell’economia moderna, che di per sé hanno una dimensione plurale che predisporrebbe alla cooperazione dei soggetti (la divisione delle professioni, gli scambi sui mercati) non bastano da sole a generare comportamenti di reale apertura e incontro con l’altro, ma hanno bisogno di uomini e donne che si dispongano ed agiscano nel senso della reciprocità e della fraternità costruendo la logica e la ragione del proprio agire non sulla base di un esercizio privato di calcolo tra diverse opportunità, ma attraverso azioni congiunte: parole scambiate e reciprocità di sguardi attenti a cogliere la benedizione e non ritraendosi dalla possibilità della ferita che l’altro può essere per noi, secondo la bella espressione di Bruni (cfr. La ferita dell’altro, Il margine editore). Il liberismo così come lo abbiamo conosciuto con le tesi della scuola di Chicago e le figure di Reagan e Thatcher è ben diverso da come originariamente formulato da Adam Smith».

Quali sono i punti di contatto tra il campano Genovesi e lo scozzese Smith? 
«Nella prospettiva di Antonio Genovesi come in quella di Adam Smith, l’economia basata sullo scambio di mercato e sulla divisione delle professioni ha contribuito a realizzare quella che essi stessi riconoscono come la più grande rivoluzione del tempo moderno e cioè il passaggio dall’organizzazione feudale – nella quale le relazioni e le identità delle persone erano definite in base alla posizione che ricoprivano all’interno della gerarchia sociale – ad un’organizzazione fondata su rapporti di libertà tra eguali, tra pari, tra cittadini».

Cosa affermava Smith?
«Secondo la visione proposta da Smith nella sua opera più nota, la Ricchezza delle nazioni (1776), questo salto epocale fu reso possibile dalla struttura stessa dell’economia che, articolata attorno a plurime attività specializzate, poteva produrre quantità in eccedenza rispetto ai bisogni dei singoli produttori da scambiare sui mercati realizzando così sovrappiù, ricchezza. Ciò consentiva a ciascuno di non dipendere da uno solo per la propria sussistenza, ma da una molteplicità di rapporti vissuti attraverso il momento dello scambio sul mercato e definiti in base alla mediazione operata dal sistema dei prezzi».

E quindi come avvenne la frattura tra economia e società civile che porta all’attuale crisi della democrazia?
«Nella visione di Smith e di Genovesi l’indipendenza dall’altro costituì la particolare moderna declinazione della libertà, una libertà preziosa eppure vulnerabile e rischiosa. L’affrancamento dall’altro, infatti, quando coincide con il progressivo affievolimento dei rapporti che ci legano ai nostri simili si capovolge nel suo contrario, producendo separazione e schiavitù (questo in linea con quanto già affermava Aristotele). E su questo punto, a mio avviso cominciano a manifestarsi le differenze tra i due autori. Se, infatti, per Smith la “dispersione delle relazioni” e l’atteggiamento auto-interessato degli individui erano condizioni sufficienti per il buon funzionamento dell’economia basata sullo scambio, che genera “naturalmente” comportamenti cooperativi a livello sociale, Genovesi ha bisogno di caratterizzare il contesto sociale e l’uomo che lo abita in senso qualitativamente più complesso e ricco».

Quale è il nocciolo della questione?
«Il passaggio dal sistema feudale, basato su relazioni di sottomissione, all’età moderna ha chiaramente anche per Genovesi segnato l’origine dell’esperienza nuova di una libertà più vera percepita come sentimento di indipendenza. Al tempo stesso è sulla qualità dei legami che, pur nell’esperienza dell’indipendenza, ci stringono agli altri, che si gioca per l’autore partenopeo l’esperienza della libertà più completa e duratura, quella che per compiersi ha bisogno dell’equità e della fraternità».

Come si possono descrivere questi legami?
«Molti legami positivi sono espressione di atteggiamenti e propensioni dell’uomo che si dispone verso l’altro non tanto motivato dal proprio individuale interesse, ma dall’attenzione a costruire qualcosa che possa comprendere e ricomprendere la presenza e il bene di entrambi. Senza sentirci parte di un comune destino insomma e senza mettere in gioco le rispettive identità in un processo di “contaminazione” tra il mio sguardo, le mie parole e quelli del mio simile, non è possibile alcuna produzione reale di valori e dunque neppure di ricchezza.

Certamente le prospettive del liberismo contemporaneo hanno acuito questa tensione che già c’era tra le prospettive di Smith e Genovesi accentuando la dimensione individuale dell’uomo che è così diventato sempre meno umano e sempre più simile alla caricatura di se stesso, sempre più separato e alienato dall’esistenza degli altri pur sfiorandone la presenza continua nel vivere quotidiano».

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