Jules Verne sull’Etna

Nel suo romanzo d’ispirazione dumasiana “Mathias Sandorf”, lo scrittore francese dà prova di conoscere bene alcuni siti italiani, facendo dubitare che li abbia visitati di persona.

 

Jules Verne avrebbe visitato occasionalmente a Trieste? Parrebbe di sì, considerando la realistica descrizione fatta di questa città, al tempo in cui era parte dell’Impero austro-ungarico, in Mathias Sandorf, uno dei suoi romanzi più validi (e meno noti), edito nel 1885. Allo stesso modo lo scrittore francese potrebbe essere stato in centinaia di altri posti del globo descritti con sorprendente accuratezza nella serie dei suoi Voyages Extraordinaires: del resto era possessore di un elegante yacht che gli permetteva di girare, se non il mondo intero, almeno il Mediterraneo. È anche vero però che negli ultimi anni, ormai malato, preferiva starsene tranquillo ad Amiens, la città della moglie, dividendo il proprio tempo fra la scrittura e l’impegno politico. No, l’abilità di Verne nel tratteggiare gli scenari delle sue storie consisteva soprattutto nel suo scrupoloso documentarsi. I viaggi, preferiva farli fare ai suoi eroi, lanciandoli dalle zone polari ai deserti africani, mentre lui – m’immagino – rifletteva nel suo studio, davanti ad un mappamondo, su quale regione della terra gli restasse ancora da toccare per la successiva avventura.

Per tornare a Mathias Sandorf, il lettore è trasportato in una scorribanda che da Trieste, appunto, giunge in Istria (a Pisino, Ragusa, Parenzo, Rovigno) e di lì a Malta, in Sicilia (a Catania e sull’Etna), a Ceuta e Gibilterra e infine in un’isoletta davanti alle coste libiche. Romanzo nel quale predomina l’elemento avventuroso (anche se non manca quello scientifico, così caro allo scrittore) e ispirato dichiaratamente al capolavoro di Dumas Il Conte di Montecristo. Come, infatti,  Edmond Dantès fuggito dal castello d’If si avvale di un favoloso tesoro per vendicare i torti subìti, così il conte ungherese Mathias Sandorf, condannato alla fucilazione per aver complottato la separazione del suo Paese dall’Impero austroungarico e creduto morto dopo una rocambolesca fuga dalla fortezza di Pisino, diviene possessore di una fortuna per aver guarito un rajah indiano; fortuna che gli consente – dopo quindici anni –  di organizzare una personale resa dei conti nei riguardi del banchiere Silas Toronthal e dei suoi complici Sarcany e Zirone, la cui denuncia per impossessarsi dei suoi beni gli ha rovinato la vita; e viceversa, di ricompensare i suoi benefattori. Anche per questo motivo il romanzo si potrebbe anche intitolare Il giustiziere.

Non mancano nella vasta opera di Verne altre figure di vendicatori che perseguono con tenacia il loro proposito grazie alle cospicue ricchezze e ai prodigiosi ritrovati della tecnica: primo fra tutti il capitano Nemo col suo Nautilus. Quanto a Sandorf, assunta la nuova identità di dottor Antekirtt, padrone di navi e siluranti sottomarini, nonché di un’isola nel golfo delle Sirti nella quale ha creato una colonia modello, ha ormai tutti i mezzi per mettere in atto il suo progetto.

Tanti i colpi di scena (messaggi cifrati, morti apparenti, guarigioni miracolose…), mentre delude un po’ l’affrettato finale escogitato da Verne per risparmiare al suo eroe, anima nobile e generosa, la macchia di giustiziere diretto dei colpevoli: saranno loro stessi, infatti, ad attivare inconsapevolmente, nell’isoletta disabitata dove il dottor Antekirtt li ha relegati in attesa di deciderne la sorte, il sistema elettrico di autodistruzione della stessa.

Come saggio delle suggestive descrizioni contenute in questo romanzo, ecco un brano dell’ascensione sull’Etna fatta dal dottor Antegirtt (alias Sandorf) insieme al suo giovane protetto Pierre:

«Verso le otto di sera, il dottore e Pierre erano già arrivati all’altezza di tremila metri, al limite delle nevi perpetue. È la regione delle lave nere, delle ceneri, delle scorie, che si estendono al di là di un immenso crepaccio, il vasto circo ellittico di Valle del Bove. Si dovette aggirarne le falde, alte da mille a tremila piedi, ricche di strati di trachite e di basalto, ancora indenni dalle offese degli elementi.

Più avanti si ergeva il cono propriamente detto, dove alcune fanerogame formano qua e là emisferi di verzura. Questa gibbosità centrale, che è da sola una montagna – Pelio sull’Ossa –, arrotonda la sua cima all’altezza di tremilacinquecentosedici metri al disopra del livello del mare.

La terra fremeva già sotto i piedi. Delle vibrazioni, prodotte da quel lavorio plutonico che affatica senza posa la massa dell’Etna, si propagavano sotto gli strati della neve. I vapori solforosi del pennacchio, piegati dal vento all’orificio del cratere, scendevano a volte sino alla base del cono, e una tempesta di scorie, simili a carboni incandescenti, cadeva su uno strato biancastro dove si spegneva stridendo.

La temperatura era molto fredda – parecchi gradi sotto lo zero – e la respirazione difficile a causa della rarefazione dell’aria. I viaggiatori avevano dovuto avvilupparsi strettamente nel mantello.

Una brezza acuta, avvolgendo la montagna, sollevava i fiocchi sottili di neve, strappati al suolo, che si aggiravano nello spazio. Da quell’altezza, si potevano osservare al disotto della bocca ignivoma, dalla quale si sprigionavano fiamme tremolanti, altri crateri secondari, anguste solfatare o pozzi cupi, in fondo ai quali crepitava pure il fuoco sotterraneo. Si sentiva un rumoreggiare incessante, con un crescendo d’uragano, paragonabile agli sbuffi di un’immensa caldaia, il cui vapore surriscaldato tenesse aperte le valvole. Tuttavia non c’era pericolo di eruzione, e quella collera interna produceva solo i fremiti del cratere superiore e l’uscita delle scorie che ingombravano il cono.

Erano le nove di sera. Il cielo risplendeva di migliaia di stelle, anche più scintillanti, a quell’altezza, per la debole densità dell’atmosfera. La luna si immergeva ad occidente nelle acque del mare Eolico. Su una montagna che non fosse stata un vulcano attivo, la calma di quella notte sarebbe stata sublime».

E a questo punto viene spontanea la domanda: Verne è stato anche sull’Etna?

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