Italiani. Quando i clandestini eravamo noi

Uno spettacolo corale intenso che racconta la storia sconosciuta dell’emigrazione italiana nel mondo. Nell’intervista al direttore Rocco Femia, il senso del lavoro della rivista Radici e del gruppo artistico Incanto che hanno ricevuto un importante riconoscimento dalla Fondazione svedese “Queen Christina Europa”
radici

La Fondazione svedese intitolata alla Regina Cristina ha attribuito il Label  Qc – Europa (Queen Christina Europa) alla rivista italo francese Radici e al gruppo artistico “Incanto” che potrà così portare in diverse città del continente (Stoccolma, Madrid, Porto, Vienna, Varsavia, Roma e Spoleto.) lo spettacolo sulla storia della migrazione italiana nel mondo. Un percorso che aiuta a comprendere le dimensioni di quel fenomeno epocale che arriva oggi dal Sud del Pianeta mettendo in crisi la consistenza stessa dell’Europa e la sua identità più profonda. Per questi motivi la fondazione scandinava intitolata ad una donna dalla vita controversa, figlia della lunga “Guerra dei trent’anni” che ha segnato la storia europea, ha intravisto in questo percorso artistico che lega Italia e Francia, il segno e la speranza di un’identità  fondata sui valori  di tolleranza e libertà.  

 

Chiediamo, quindi, a Rocco Femia, direttore della rivista Radici, di raccontarci l’origine della rivista e i rapporti ha con il gruppo teatrale “Incanto”…

 

«La rivista “Radici” è nata quattordici anni fa con lo scopo di colmare un vuoto d’informazione sull’Italia in Francia. All’inizio abbiamo voluto una rivista che potesse permettere ai francesi appassionati dell’Italia di avere un mezzo regolare d’informazione culturale, sociale, politica, turistica. Insomma un’Italia a 360 gradi. Eravamo lontani dall’immaginare l’entusiasmo che questa pubblicazione avrebbe generato in tutta la Francia. Il successo ci ha spinto qualche anno più tardi a creare anche una casa editrice con una sezione libri, in lingua francese, ma totalmente consacrati all’Italia. E poi da due anni una casa di produzione musicale con vari spettacoli non solo nel registro tradizionale e popolare come per “Italiani, quando gli emigrati eravamo noi”. Posso dire che la storia del gruppo “Incanto” è particolarmente bella, perché dal niente è uscito fuori questo piccolo miracolo. Uomini e donne, figli e nipoti di seconda terza e quarta generazione che cantano la storia dei loro avi, animati dallo stesso sentimento. È forse in quest’appartenenza storica, in questo supplemento d’anima che risiede la forza dello spettacolo oltre che al contributo di 8 musicisti di grande talento».

 

Come è nata concretamente l’idea dello spettacolo?

 

«In realtà la scintilla ispiratrice è dovuta alla grande amicizia con l’italiano Gualtiero Bertelli, uno dei pochi testimoni rimasti di questo immenso patrimonio musicale dei canti tradizionali e popolari. Gualtiero aveva già percorso l’Italia con il suo piccolo gruppo affrontando questo tema. Poi abbiamo deciso di riprenderlo in Francia, riadattandolo completamente, in una versione molto più complessa e strutturata, con 25 coristi, 8 musicisti, 5 tecnici e l’attore italo-francese Bruno Putzulu che racconta la nostra storia di emigrati».

 

C’è da dire che l’emigrazione italiana è poco nota…

 

 

«Si tratta di una dolente verità della nostra memoria collettiva. Abbiamo dimenticato tutto. Ancora oggi, molti italiani affermano: “ma noi, non siamo mai stati clandestini”. È falso. La storia vera ci rinvia un’immagine non sempre luminosa di noi italiani brava gente, ma è vero che in un passato nemmeno così troppo lontano, i poveri, i diseredati, i clandestini eravamo noi.

L’emigrazione, in questo esercizio dell’oblio, è stata ridotta a qualche riga di ordine generale nei manuali scolastici in uno sforzo collettivo di dimenticare. Bisognava dimenticare questa povertà e la vergogna che ne conseguiva.

Ebbene, noi ci siamo voluti interessare a quest’altra Italia all’estero, quella che mangiando pane e miseria, ha conquistato una dignità altrimenti impossibile. E lo abbiamo fatto grazie alla musica. Perché la musica è la sola, forse, che ha accompagnato e accompagna i viaggi della speranza, ha saputo raccontare le gioie e i drammi di quei 27 milioni di italiani, di quegli uomini e donne che, nello spazio di un secolo e mezzo, hanno combattuto per vivere»

 

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