Islamici e democratici?

I risultati delle elezioni in Tunisia, Marocco ed Egitto parlano chiaro. Hanno vinto i partiti islamici, seppur non quelli più radicali. Un bene o un male?
egitto referendum

Quota 40. C’è non poca preoccupazione nelle cancellerie europee ed occidentali in genere per i risultati delle elezioni che si sono svolte nell’ultimo mese in tre Paesi-chiave del Nord Africa: in Tunisia nella seconda metà di ottobre, con la vittoria del partito Hennada, con quasi il 40 per cento dei voti; in Marocco, il 25 novembre, con la vittoria della formazione Pjd, Partito della giustizia e dello sviluppo, che ha raccolto più del 40 per cento dei votanti; e in Egitto, dove le elezioni non sono ancora concluse, il partito dei Fratelli musulmani, Libertà e giustizia, s’avvia ad essere il partito di maggioranza relativa con una percentuale di poco inferiore al 40 per cento dell’elettorato che ha votato. Ma in Egitto va pure registrata l’inattesa avanzata, fino a cifre vicino al 25 per cento, dei partiti di fede salafita, cioè molto più radicali dei Fratelli musulmani.

 

Non pochi cittadini occidentali paventano un futuro dominato dall’oscurantismo islamista, fatto di shari’a, di burqa, di diritti dell’uomo calpestati, di democrazia tradita, se non addirittura di terrorismo e violenze. Ma le cose stanno veramente così? Siamo dinanzi ad un presunto “medio evo” musulmano? È un fenomeno elettorale inatteso da tanti europei, ma in realtà atteso da tutti gli osservatori più attenti, che si rivelano più cauti nell’esprimere giudizi definitivi sul successo dei partiti “islamici moderati” (va sempre ricordato che questo aggettivo poco si addice all’universo musulmano, perché dire che la propria fede è moderata è quasi una bestemmia).

 

In realtà penso si debba guardare con attenzione e interesse a queste tre vittorie islamiche, che si sommano a quella di Hamas nei Territori palestinesi, anch’essi di ispirazione islamica, e in attesa delle elezioni che, si spera, si volgeranno anche in altri Paesi della regione, Libia in testa. Tale sguardo attento e interessato penso si possa basare su quattro motivi.

 

Il primo motivo è che il passaggio da dittature più o meno dure, più o meno illuminate, a regimi che si avvicinano alla democrazia deve essere progressivo. Non si può pensare che d’improvviso i Paesi arabi sposino i modelli democratici occidentali senza metterci nulla di loro. Questi Paesi debbono trovare la loro via ad una gestione del potere rispettosa delle libertà individuali e collettive, ma con una configurazione giuridica adatta alla loro storia e alla loro attuale situazione socio-economica.

 

In secondo luogo, coinvolgere nel potere questi partiti islamici che hanno un forte radicamento popolare e sociale li porterà a dover gestire la cosa pubblica con attenzione e rispetto delle fasce più povere della popolazione, ma anche delle obbligazioni del mercato. Non sarà una passeggiata, anche perché la crisi economica sta colpendo in modo gravissimo questi Paesi, basti pensare al crollo del turismo, una delle loro maggiori entrate.

 

In terzo luogo lo sguardo ha da essere in qualche modo positivo perché questi partiti islamici, “controllati” dagli studenti acculturati che usano Facebook e Twitter, saranno obbligati in qualche modo a rispettare libertà e diritti umani, almeno in misura molto maggiore di quanto non abbiano fatto i dittatori che hanno preceduto questa stagione di elezioni.

 

Infine, non si può pensare che nei Paesi arabi l’Islam rimanga fuori dalla politica, tanto grande è la sua influenza sulla vita della gente. La laicità di stile arabo è tutta da scoprire, ma in ogni caso terrà conto delle implicazioni della religione nella cosa pubblica. Una religione che, va ricordato, non è così organizzata come altre religioni, a cominciare da quella cristiana che hanno una forte struttura istituzionale. L’Islam è più un insieme di principi che un’organizzazione.

 

 

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