Isa Miranda, la favola e la realtà

Colei che fu definita la “Garbo italiana” ripercorre gioie e dolori della sua carriera.
Isa Miranda

Lo scorso 8 marzo ci ha lasciati la scrittrice Lia Carini Alimandi, per anni nostra preziosa collaboratrice. Era nata a Isnello, in provincia di Palermo, 89 anni fa. La ricordiamo con gratitudine riproponendo questa sua intervista (Città Nuova n. 8/1981) a Isa Miranda, attrice di cinema e teatro apprezzata in campo internazionale tra la metà degli anni Trenta e i Cinquanta.

 

Incontro Isa Miranda in una clinica romana. È ricoverata da tre anni. In precedenza, a causa di una brutta caduta, aveva già subito cinque interventi al femore; ma si era ripresa. Un’altra caduta nel 1978, e stavolta un’infezione al femore si dimostra ribelle ad ogni cura. Dolori continui e strazianti.

Poi – recentissima – la perdita del marito, l’ex produttore Alfredo Guarini, che fino all’ultimo l’ha assistita amorosamente. E tuttavia il suo viso ancora bello nonostante gli anni appare sereno. Gli occhi vivissimi, la voce giovanile.

 

Signora, so che soffre molto…

«È vero. Ma non da sola né inutilmente. Dico a Gesù il mio amore e il mio dolore. Non ho mai amato le lunghe preghiere vocali; ma mi è sempre piaciuto stare unita al Signore, parlargli come al più caro amico, fare per lui i piccoli lavori come i grandi, lavare i piatti, magari truccarmi…».

 

Dunque, lei prega spesso.

«Continuamente. E nei momenti difficili vi ho trovato sempre rifugio. Qualche volta coraggio e speranza mi vengono meno; ma subito mi riprendo e chiedo perdono a Dio. Perché lui è sempre accanto a me, solo che vuole provarmi, vedere cosa so fare. Senza di lui, nulla, purtroppo».

 

È convinta che il dolore abbia una grande, reale funzione?

«Convintissima! Il dolore mi ha maturata, mi ha fatto maggiormente apprezzare i valori in cui ho sempre creduto, comprendere la sofferenza degli altri. Questa mia malattia la considero una grazia».

 

La sua fede è un’eredità o una conquista?

«Tutt’e due. Una conquista perché, quanto più mi è costata, tanto più mi ha illuminato l’anima. Un’eredità perché mi è stata trasmessa da mia madre: una donna modesta e senza cultura, una mondariso, ma virtuosa e saggia. La ricordo con immenso affetto e stima. Era terziaria francescana».

 

Una sua raccolta di poesie si intitola "Una formica in ginocchio". E quella formica… era lei!

«È proprio ciò che ho sempre sentito di essere: davanti a Dio l’umiltà è l’unico atteggiamento adatto; ma anche davanti agli uomini. Senza l’umiltà non si costruisce niente».

 

Cosa ha significato per lei il successo, il fatto di essere considerata una diva?

«Il successo non mi ha mai esaltata perché ho sempre saputo ch’è cosa passeggera. Val molto di più la soddisfazione di aver fatto un lavoro valido artisticamente e moralmente. Il successo io l’ho avuto, sì, ma non ho barato né brigato per meritarmelo. L’ho pagato con tanta fatica e tanto impegno; e sempre senza compromessi».

 

L’onestà impedisce le più alte carriere?

«No. È solo più difficile raggiungerle; ma chiunque sia onesto, purché dotato d’intelligenza, volontà e perseveranza, può riuscire anche oltre le proprie speranze e previsioni. E questo è il solo successo che dura e che dà gioia».

 

Che cosa pensa del suo “ieri” tanto celebre?

«Ricordare il bello che non c’è più, fa male; ricordare ciò ch’è stato triste è inutile dolore. Non m’interessa né il passato né il futuro. Solo il presente».

 

Un presente non certo facile…

«Lo spirito però è ben vivo. Sì, ho avuto tante sofferenze, ma più ancora doni: il più grande è stato l’amore immenso di mio marito che, fino all’ultimo mi è stato accanto. Per noi due era come se il nostro amore fosse nato appena ieri. E siccome sono cristiana e credo nell’immortalità dell’anima, ho la certezza che durerà oltre questa vita».

 

Il suo atteggiamento di fronte la vita e alla morte?

«Ho amato la vita come un dono di Dio, come una possibilità di dare qualcosa di me, di amare. Ho sempre considerato il momento più importante quello in cui sono nata. Ora considero il più importante quello estremo. Come la vita, anche la morte è un atto di fede. Io sono pronta… Mi sento come un albero ricco di amore e di dolore con le radici infisse ancora nella terra ma con la chioma che già sfiora il cielo».

 

So che una sua pena è stata non aver figli.

«Ma quando non si realizza quanto ci sta a cuore, Dio trova un’apertura verso l’inatteso. Non ricordo chi l’ha detto, ma è vero. Di figli ne ho cercati e trovati tanti, non miei, da aiutare, da amare. Il mio conforto è stato dare loro, come fossero miei, l’amore immenso che sentivo dentro».

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons