Io, Egon

Egon Schiele a Milano: anelito alla libertà assoluta
Egon Schiele

«…Amo penetrare nel profondo di tutti gli esseri viventi… Detesto la coercizione che vuol costringermi a una vita non mia, senza Arte, senza Dio». Tratte dal Diario dal carcere, le frasi dicono l’uomo e l’artista. Muore a Vienna, nel 1918. Ha solo 28 anni ma ha dipinto oltre 300 tele, infiniti disegni e acquarelli. Enfant prodige del disegno, nel binomio arte-vita brucia l’esistenza. Non vuole ostacoli. Tutto ciò che è umano – corpi, pensieri, emozioni, pulsioni – lo coinvolge. Da sempre i giovani lo ammirano, anche in questa rassegna. Come loro travolge gli schemi. Si ritrae allo specchio, si scava dentro. Basta osservare gli autoritratti. In uno del 1910, spicca il volto a macchie rosse e brune sul fondo pallido. Gli occhi sono carboni ardenti, il profilo ancora fanciullesco, ma la linea è secca, nervosa, dice già l’inquietudine del personaggio. In quello del 1912, a 22 anni, è spigoloso, “gotico”: pupille di brace, l’occhio incupito nell’ansia della ricerca. Egon dipinge per lampi. Le donne, un soggetto costante, egli le brucia con la linea nervosa nel corpo e nella mente. Non è solo erotismo: è analisi, talora selvaggia, della vita. Se la Donna inginocchiata del 1910 si nasconde per rivelare lo sguardo malizioso, vestita di pieghe rosse dure, la Ragazza in abito blu appare una icona di sensualità femminile contornata da una luce bianca che la rende una autentica femme fatale.

Sono gli anni di Freud, di Schönberg, di Klimt. Schiele vive la rivoluzione artistica e culturale che lo circonda e con cui è in contatto, con furore. Nella Danzatrice del 1911 ritratta di schiena imprigiona l’attimo. Ne dipinge il vuoto dell’anima, l’angoscia di un tempo veloce, che è già il nostro. Quasi in un “cupio dissolvi”. La Donna distesa del 1917, l’anno prima della morte, è un corpo privo di spirito che si offre a chiunque. Una sorta di Venere botticelliana privata della grazia, eppure risolta con la medesima linea nervosa, musicale – ma di una musica “rotta”, alla Schönberg -, icona di una rivoluzione sessuale ante litteram.

Pure, Schiele non ignora una ricerca di spiritualità. Sono momenti rari, ma autentici, che egli rispecchia nell’autoritratto insieme a Klimt, Gli eremiti, del ’12. Due cupe immagini gigantesche, nere sul grigio: anime in cerca di una luce che non trovano. Come pure sono bui i paesaggi, case sopra case allineate. Prive della più elementare prospettiva. Ma a Schiele non interessa, lui vive concentrato su sé stesso. Come i giovanili Fiori stilizzati del 1908: un trionfo di viola e gialli sullo sfondo decorato alla Klimt. L’anima di Schiele è viola: densa, ricca di un profumo interno. Difficile da scoprire, perché occorre oltrepassare la tensione lineare acuta delle sue opere.

 La rassegna, curata da Palazzo Reale e Skira editore, ce la svela in 40 lavori, insieme al suo anelito alla libertà assoluta, al Tutto. L’arte è il suo Dio.

 

Schiele e il suo tempo. Milano, Palazzo Reale, fino al 6/6 (cat. Skira)

E. Schiele, Diario dal carcere (Skira).

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