Inculturazione di comunione

Globalizzazione, ecclesiologia e inculturazione di comunione, comunione missionaria. Nuove frontiere teologiche alla luce del Vaticano II. Il contributo del Movimento dei focolari.
Inculturazione

In questi ultimi anni ci troviamo spesso ad ascoltare conferenze sulla globalizzazione o mondializzazione, un fenomeno sociale di dimensioni planetarie i cui effetti si possono toccare con mano ogni giorno aprendo il giornale o internet.

Se ne parla dunque molto, perché effettivamente è una sfida continua che può da una parte dare alle persone la gioia di “sentirsi mondo”; dall’altra però può agire come rullo compressore di ciò che è loro specifico, particolare, intimo.

Non è raro quindi che nei dibattiti sulla globalizzazione, quando si viene al dunque, ci si trova ad affrontare un problema cruciale: come fare per navigare con disinvoltura nel mare della globalizzazione, senza dover rinunciare alla propria specificità personale, familiare e culturale.

Si mette in risalto il positivo della globalizzazione; si dice che può essere un segno dei tempi per accelerare l’unità dei popoli in un unica famiglia, a condizione che esso rispetti e valorizzi l’individualità e la specificità delle minoranze. Un equilibrio tutt’altro che facile e che esige una educazione e un allenamento all’amore vissuto secondo il Vangelo, quello che accetta di dare la vita per i suoi amici.

Teologicamente si direbbe che nel contesto della globalizzazione odierna è in gioco il rapporto tra comunione e inculturazione, due parole corrispondenti a due grandi tematiche che sono state trattate in maniera innovativa in seno al Concilio Vaticano II.

Tematiche che sono riemerse in due incontri internazionali alle quali ho avuto la fortuna di partecipare l’estate scorsa: il Congresso Panafricano del Movimento dei Religiosi dell’Opera di Maria, tenutosi a Nairobi sul tema “Evangelizzazione e Comunione in Africa”, e la Conferenza dell’Associazione Internazionale dei Missiologici Cattolici (AIMC), tenutasi in Polonia sul tema “Condividere il Vangelo nell’interazione delle culture”.

È utile allora approfondire il rapporto che sussiste tra comunione e inculturazione dal punto di vista del Concilio che inaugura una ecclesiologia di comunione come pure un nuovo approccio teologico della missione che nel dopo Concilio sfocerà nella categoria di “comunione missionaria”.

Consideriamo prima di tutto l’ecclesiologia di comunione nel suo rapporto con la missione e, in seguito, nel suo rapporto con l’inculturazione. Così facendo, avremo l’occasione di ravvivare in noi l’impegno di “fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione”, la grande sfida del terzo millennio lanciata dalla Novo millennio ineunte e sempre più attuale (43). 

Ecclesiologia di comunione 

L’indizio più sicuro dell’ecclesiologia di comunione nel Concilio è quello terminologico, cioè la frequenza relativamente abbondante nei suoi documenti del termine latino communio.

Quest’ultimo lo si trova precisamente 108 volte, in più della metà dei suoi documenti (11 su 16)1 e può indicare di volta in volta: la comunione di e con Dio in Cristo per mezzo dello Spirito; l’intima natura della Chiesa; la Comunione dei Santi nel senso del Credo; la comunione eucaristica; la comunione gerarchica; come anche e spesso la comunione fraterna, frutto del mutuo amore tra i discepoli del Signore Gesù; come pure può indicare le diverse denominazioni delle comunità cristiane (comunione cattolica, anglicana…)2.

Si tratta dunque, come spiega Benedetto XVI, di un termine ‘polisemantico’ da non poter prendere in un senso univoco, ma che tuttavia esprime l’essenza della Chiesa: “Ho accennato al fatto che la parola communio nel Concilio non era un ‘nome’, che si usava per indicare la realtà della Chiesa. Però, come abbiamo visto, il termine contiene tanti aspetti della vita della Chiesa. Anzi in questa parola appare ‘tutta’ la ricchezza della vita ecclesiale. Nella riflessione degli anni settanta emergeva sempre più l’evidenza che proprio questo carattere polisemantico del termine communio lo rendeva idoneo per esprimere una sintesi, più completa possibile, delle diverse dimensioni dell’essere-agire della Chiesa”3.

Evidentemente, il Concilio in se stesso va considerato un avvenimento di comunione ecclesiale ed il modo con cui esso guarda il mondo è pure dettato dalla comunione.

Ne è segno il fatto che a più riprese il Concilio si mostra attento alle realtà del mondo che sono affini alla comunione. Ed a questo proposito, esso ritiene che l’unità è un segno dei tempi (cf. UR 4; AA 14), come pure una tendenza del mondo contemporaneo (cf. DH 15; GS 4.24.33.42.77; LG 1.28; NA 1).

Inoltre, percorrendo i suoi documenti, si viene a sapere che la comunione illumina e guida ogni rapporto interecclesiale. Ogni membro della Chiesa, secondo la sua vocazione, stato di vita, carisma e ministero, è coinvolto in un vissuto di comunione.

Dal Papa ai vescovi (cf. LG 23; CD 3. 6. 16; AG 19), dai preti e seminaristi (cf. PO 2. 6-9. 14; LG 28; GS 43; AA 25; OT 4-9) alle religiose e religiosi (cf. LG 45; PC 15), fino ai laici, donne e uomini di ogni ètà (cf. AG 21;AA 23; GS 62), tutti, concorrendo all’unica missione ecclesiale, sono sollecitati a collaborare alla sua comunione organica e armoniosa, frutto della coesistenza nell’amore delle diversità (ministeriali carismatiche come anche sociali e culturali), e segno di salvezza per il mondo.

In sostanza, il Concilio, affermadno che la comunione ecclesiale “coinvolge l’intero progetto di salvezza di Dio e tutta la realtà umana e universale”4, vuole portarci ad ammettere che l’origine, la natura, la vocazione e la missione della Chiesa sono legate indissolubilmente alla sua comunione. Sicché si potrebbe dire con Tillard: “non c’è nulla nella chiesa che non sia comunione”5.

I Padri del Sinodo del 1985, chiamati a fare il bilancio sul Vaticano II, si sono pronunciati a colpo sicuro sul tema, dicendo che “l’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale del Concilio”6 e indicando così nella categoria della comunione la chiave di lettura più adatta e irrinunciabile sia del Concilio che della Chiesa.

Ciò si spiega pure perché, in quasi tutti i documenti conciliari, accanto al termine communio, ce ne sono altri che esprimono la stessa realtà. È il caso specialmente dei termini unitas e unio, che unitamente alle loro forme verbali vi si leggono più di 300 volte, diventando secondo il contesto sinonomi di communio.

Ma ciò vale anche per altri termini affini ricorrenti come: communitas, societas, unificatio, communicatio, partecipatio, consociatio, consortium, coniunctio, cooperatio, concordia, commercium, collaboratio, conspiratio…

Tutte queste espressioni che traducono la realtà della comunione sono simili a rivoli d’acqua che, confluendo nello stesso fiume, concorrono all’affermazione dell’ecclesiologia di comunione.

Questa ecclesiologia, radicata nella comunione d’amore della Trinità (cf. LG 4; UR 2), esprime una visione fondamentale che illumina tutti gli aspetti della vita cristiana e ecclesiale nel e di fronte al mondo. Ciò che si può constatare immediatamente nei confronti della missione.

In questo caso ci si può rendere conto ancora di più che l’ecclesiologia di comunione è una realtà dinamica. Infatti, interagendo con la missione, diventa essa stessa missionaria e la missione si arricchisce della comunione. Giovanni Paolo II, che per primo ha parlato della “comunione missionaria” (ChL 232), la chiama “ecclesiologia di comunione e di missione”7. 

La comunione missionaria della Chiesa 

Si può parlare di ecclesiologia di comunione e di missione perché la Chiesa è una comunione in missione (cf. LG 1.4; AG 4) e soprattutto perché il suo modello è la Trinità (cf. GS 24). Come risulta dalla rivelazione e dalla tradizione, il mistero trinitario di Dio è una comunione d’amore che si esprime in missione nel Figlio e nello Spirito, dunque una comunione missionaria.

Il Concilio ne prende coscienza e lo riafferma, quando dichiara che la comunione e la missione della Chiesa hanno la loro comune sorgente nella comunione trinitaria: “La Chiesa che vive nel tempo per sua natura è missionaria, in quanto è dalla missione del Figlio e della missione dello Spirito Santo che essa, secondo il piano di Dio Padre, deriva la propria origine” (AG 2).

In questo passo, con la forza d’una scoperta innovatrice e d’una dichiarazione dogmatica, la natura della Chiesa, dunque la sua comunione e la sua missione, sono un tutt’uno nella e per la comunione missionaria della Trinità. Comunione e missione provengono e sono de Trinitate8, di modo che le due non possono che essere in sinergia nella teologia e nella prassi e dunque anche nel campo dell’inculturazione.

Di conseguenza la Chiesa, pervasa della comunione trinitaria, è chiamata a vivere in comunione se vuole compiere la sua “intima missione” (GS 42) che consiste nell’essere germe e preparare nel dialogo (cf. GS 92) la comunione di tutti i popoli (cf. GS 32) in “fraternità universale” (GS 38.91; cf. LG 9.13.32).

La missione della Chiesa è dunque modellata dall’ecclesiologia di comunione. Essa trova nella comunione di Dio il suo inizio e prototipo; nella sua propria comunione, la testimonianza che è chiamata a dare nella storia del mondo; nella comunione universale, il suo fine9.

Il Vaticano II insieme ad un’ecclesiologia di comunione inaugura pure una ecclesiologia della missione che, tutto sommato, potrebbe corrispondere ad una “teologia di comunione missionaria” che deve influire sull’inculturazione.

Secondo questa ipotesi, se la missione in se stessa è necessaria alla natura della Chiesa e spetta ad ogni cristiano (cf. LG 17; AG 2.3.6.35), per la missione è ugualmente necessaria la comunione ecclesiale. Tra comunione e missione allora si stabilisce un vincolo di forte interdipendenza e complementarietà, per cui la missione “non esiste al di fuori di questo schema di comunione” 10. 

L’inculturazione di comunione 

A partire da queste premesse teologiche, non c’è da meravigliarsi se, già nel Concilio, il discorso sull’inculturazione s’illumina anch’esso dell’ecclesiologia di comunione o se si vuole della teologia della comunione missionaria11.

Considerare l’inculturazione come modalità della missione ispirata, produttrice e finalizzata alla comunione, è giustificabile quindi da quanto si sta dicendo. Questa visione delle cose si giustifica pure per il fatto che certi testi del Vaticano II – soprattutto quelli del decreto missionario Ad gentes, relativi alla problematica dell’inculturazione e tra i più citati dagli autori sulla questione – si dimostrano ad essa abbastanza coerenti.

Tali passaggi ci permettono di integrare nell’ecclesiologia di comunione le linee maestre del’inculturazione tracciate dal Concilio, anche se, come si sa, il termine inculturazione come tale non vi figura, in quanto la tematica dell’inculturazione nasce e si sviluppa seguendo piuttosto la teoria dell’adattamento.

Un primo punto da considerare a questo proposito riguarda il Vangelo. 

Il Vangelo della comunione 

Il Vangelo, o la Rivelazione nel suo insieme, rappresenta il punto di partenza e ugualmente uno dei poli senza cui, nell’ambito della fede cristiana, la necessità dell’inculturazione verrebbe completamente meno.

Questo polo insostituibile è un polo di comunione, la innesca e la produce. Ad gentes dice in modo sorprendente e chiaro, ma quasi normalmente per coloro che ne fanno l’esperienza, che il Vangelo è un messaggio che contiene il seme della comunione.

Il decreto, sottolineando che l’attività missionaria è intimamente legata alla natura e alle aspirazioni umane che trovano appagamento in una umanità nuova permeata d’amore fraterno, di spirito di pace, di cui Cristo è il principio, dichiara che il Vangelo, annunciato dalla Chiesa, è stato ed è un fermento di comunione: “Ed effettivamente nella storia, anche terrena, degli uomini, il Vangelo ha sempre rappresentato un fermento di libertà e di progresso, e si dimostra ininterrottamente fermento di fraternità, di unità e di pace” (AG 8).

Questa affermazione ci fa pensare che il Vangelo può essere percepito come un sacramento di comunione, affine in qualche modo all’Eucaristia, alla quale è associato dalla tradizione in una stessa venerazione (cf. DV 21).

Si può dire che, come l’Eucaristia, il Vangelo rivela e produce a suo modo la comunione di Dio e con Dio (mette in relazione filiale con Lui) e quella della comunità dei fratelli e delle sorelle in Cristo (nel suo essere destinato alla plantatio ecclesiae).

D’altronde, questa percezione relativa alla rivelazione, è presente pure in certe correnti spirituali che, già prima del Concilio, scoprivano la Parola di Dio, e dunque il Vangelo, come l’Agape di Dio, ossia il Cristo stesso, che si incarna e si svela per trascinare tutto e tutti all’unità.

Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei focolari, che con la sua esperienza spirituale ha dato e continua a dare notevole impulso all’approfondimento della realtà della comunione, così si esprime, identificando l’unità con Gesù presente tra coloro che si amano di un amore sulla sua misura:

“[Gesù] è venuto dall’UNO. E dove vuole portarci? All’UNO. È il suo pensiero che tutti siano UNO, cioè che tutti quelli che aderiscono alla sua parola ritornino all’UNO, nella Trinità che è UNA… Dobbiamo andare verso l’UNO e l’UNO è fra noi”12. 

Per il Movimento dei focolari, nell’insieme della sua teologia spirituale, l’amore come Agape – che nella sua essenza è finalizzata all’unità, sia dal punto di vista teologico (virtù) che dal punto di vista antropologico (attitudine) – è per così dire “la Parola delle Parole di Dio”, la radice di tutte le Parole di Dio che le riassume e le contiene tutte.

Gesù, il Verbo di Dio fattosi carne (cf. Gv 1, 14), che con l’incarnazione realizza il matrimonio con l’umanità, quindi un’operazione di comunione, è Lui medesimo seme di comunione.

Infatti, Egli è colui che è l’Uno di Dio (cf. Gv 1, 18), venuto dall’unità trinitaria, per fare l’unità dei figli di Dio dispersi (cf. Gv 11, 51-52); colui che vive il suo invio missionario in comunione col Padre suo (cf. Gv 3, 16-17; Mt 10, 40; Mc 9, 37; Lc 9 48; 10, 16) e i suoi discepoli (cf. Mc 6, 7-12; Gv 20, 21); colui che prega e dà la sua vita, facendosi eucaristia per l’unità dei suoi discepoli e del mondo intero (Gv 17, 21).

Si capisce allora che il Vangelo della comunione contribuisce grandemente a consolidare la missione della Chiesa come un invio da parte di Cristo “a rivelare ed a comunicare la carità di Dio a tutti gli uomini ed a tutti i popoli” (AG 10).

Inoltre, il Vangelo così concepito “dà grande aiuto alla promozione di questa comunione” (GS 23) e si erge “a solido fondamento della solidarietà fraterna tra gli uomini e tra le nazioni” (GS 89).

Il che mette la Chiesa in condizione di adempiere la sua missione di comunione: attraverso il dialogo portare all’unità trinitaria tutto quello che dal Vangelo ha preso vita, incluso le culture: “La Chiesa, in forza della missione che ha di illuminare il mondo con il messaggio evangelico e di radunare in un solo spirito tutti gli uomini di qualunque nazione, stirpe e civiltà, diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo” (GS 92).

C’è un progetto di comunione dunque che sorregge e guida l’incontro di inculturazione di Dio con l’umanità, la quale concretamente esiste nell’insieme delle sue differenze sociali, culturali e religiose. Il punto nodale e luminoso di questo progetto è il Vangelo che poi è il Cristo stesso che la Chiesa annuncia. In un prossimo articolo approfondiremo le caratteristiche dell’inculturazione di comunione.

 

NOTE

1 Enumerando i documenti in ordine alfabetico la situazione si presenta così: in Ad gentes (AG), 11 volte; in Apostolica auctositatem (AA), 2 volte; in Christus Dominus (CD), 7 volte; in Dei Verbum (DV), una volta;in Gaudiim et spes (GS), 10volte; in Lumen gentium (LG), 32 volte; in Orientalium ecclesiae (OE), 8 volte; in Perfectae caritatis (PC), unevolta; in Presbiterorum ordinis (PO), 8 volte; in Sacrosantum concilium (SC), 4 volte; in Unitatis redintegratio (UR), 24 volte. Tuttavia gli altri documenti restano sensibili alla realtà della comunione pur non usando il termine communio, per esempio Dignitatis humanae (DH 15) Gravissimum educationis (GE 8); Inter mirifica (IM 13); Nostra aetate (NA 1); Optatam totius (OT 4-9).

2 Sull’analisi della comunione nel Vaticano II: cf. W. Kasper, L’Eglise comme communion: un fil conducteur dans l’ecclésiologie de Vatican II, in Communio 1 (1987) 15-31.

3 J. Ratzinger, Alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, in AA. VV., La Chiesa mistero di comunione per la missione, Roma 1997, p. 59.

4 A. JOOS, Chiesa oggi. Impaziente dono sofferta risposta, Roma 1983, p. 157.

5 J.-M. R. TILLARD, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Brescia 1989, p. 197.

6 Il Sinodo straordinario a vent’anni del Concilio. Messaggio dei Padri sinodali, relazione finale, discorso conclusivo del Papa, Bologna 1985, p. 20.

7 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. IX/1 (1986), Vaticano, 1987, p. 1783.

8 Cf. B. Forte, La comunione particolare ed universale a servizio della missione, in AA. VV. La Chiesa mistero di comunione per la missione, op. cit., pp. 79-103.

9 Pertanto la comunione diventa verosimilmente, secondo il significato dell’unità giovannea (cf. Gv 17, 21), “la modalità primaria della missione”: M. Waldstein, La missione di Gesù e dei discepoli nel Vangelo di Giovanni, in Communio, CXI (1990) 30. In tutti i modi la testimonianza di comunione in vista della missione è frequentemente raccomandata e incoraggiata dal Concilio stesso (cf. AA 8.18.20.23; CD 17.30; GS 21.48.52; LG 45; PC 15; UR 1) e in particolare dal suo decreto missionario: “Perché nell’esercizio dell’attività missionaria si raggiungano quei risultati che ne costituiscono la finalità, tutti coloro che lavorano nelle Missioni devono avere un cuor solo de un’anima (At 4, 32)” (AG 30.

10 J. Lopez-Gay, Ecclesiology in the missiological thinking of the post-conciliar years, in Bibliografia missionaria, XLVI (1982) 378.

11 Cf. C. Rest in Dizionario di Missiologia, Roma 1993, pp. 281-286; S. Karotemprel, Suivre le Christ en mission. Manuel de Missiologie, Rome 1999, pp.125-135; E. George, Inculturation and ecclesial communion, Roma 1990.

12 C. Lubich, Andare verso l’uno, in Loppiano 4 (1981) 1, cit. da J.B. BACK, Il contributo del Movimento dei Focolari alla koinonia ecumenica. Una spiritualità del nostro tempo al servizio dell’unità, Roma 1988, p. 121.

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