Incontrarsi trent’anni dopo

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Originale, direi, l’itinerario spirituale di Diana Piazzini, medico fisiatra al Gemelli di Roma. Sposata e con due figlie, nel novembre 2006 viene incaricata della riabilitazione di una paziente d’eccezione, Chiara Lubich, ricoverata in quel Policlinico per insufficienza respiratoria. Sorpresa ed emozione di Diana, cresciuta – si può dire – nell’ambito dei Focolari: negli anni Sessanta, partecipa agli inizi entusiasmanti del Movimento Gen, la seconda generazione dei Focolari. Comunica i suoi ideali ad altre ragazze, amiche e compagne di scuola, diventate poi focolarine. A 22 anni però, al tempo degli studi universitari, inizia per lei una fase critica che la ve- de prendere le distanze dalla Chiesa, apparentemente in reazione all’esperienza che ha contrassegnato la sua prima giovinezza. Da allora Diana segue alla lontana le vicende che riguardano Chiara, fino a quel novembre 2006. Diana, cosa ha significato per te rivedere Chiara dopo oltre trent’anni ed esserle stata vicina nella fase decisiva della sua esistenza? Intendi dire qual è stata la mia reazione nel rivederla in un momento così critico, apparentemente senza quella forza trascinatrice con la quale l’avevo conosciuta nel primo congresso gen del ’67? Per me è stata un’esperienza fortemente coinvolgente, anche perché m’è venuto da accomunare Chiara a Giovanni Paolo II nel modo in cui hanno saputo affrontare la malattia e la sofferenza. La loro è stata la testimonianza di due persone che l’hanno vissuta in maniera attiva, non l’hanno mai subita, ma vi hanno aderito con tutta la loro umanità. Mi colpiva come questa donna, abituata a trattare con i grandi e lei stessa leader di un movimento così esteso, si affidasse a noi medici, cercasse di obbedire a qualsiasi cosa le prescrivessimo, anche nei momenti in cui diceva di non farcela: una testimonianza per tutto il reparto. Non è facile, occorre una grande umiltà: quando vengono ricoverate delle personalità, o anche nelle visite ambulatoriali, non sempre è semplice curarle, spesso si dimostrano intolleranti, insofferenti… Un altro aspetto m’ha colpita profondamente di lei: io m’aspettavo la persona santa, un po’ distaccata dalle cose terrene, e invece Chiara ha dimostrato un grande amore per la vita, ha sempre lottato per vivere; solo verso la fine, quando si è resa conto che ogni cura sarebbe stata inutile, ha chiesto di tornare a casa. Mi è rimasta impressa anche la sua spiccata sensibilità verso il bello. Quando stava un po’ meglio e quindi era più partecipe, a volte mi faceva dei complimenti come: Che bella giacca hai, oppure Che bei fiori, chi li ha portati?. Certo tu l’avevi sempre vista in tutt’altra situazione: era una Chiara leader… È così. Ma è anche vero che quegli occhi e quel sorriso erano sempre quelli che mi avevano colpita quando l’avevo incontrata per la prima volta ad Ala di Stura. Racconta qualcosa di allora… Avevo nove-dieci anni, quando ho accompagnato mia madre ad un incontro dei Focolari in quella località del Piemonte. Io mi annoiavo tremendamente lì in sala, perché non c’era nessuna bambina; ciondolavo dalla sedia, quando Chiara, dal palco dove stava per iniziare a parlare, mi ha guardata direi quasi con complicità; uno sguardo che m’è rimasto profondamente impresso. Anni dopo l’ho rivista durante un altro convegno a Rocca di Papa: aveva appena finito di parlare e stava andando via quando l’ho fermata e, con un po’ di faccia tosta, ne ho approfittato per farle la richiesta di un focolare nelle Marche, a Osimo, dove vivevo con i miei. Desiderio esaudito più tardi, quando un focolare si è aperto non proprio a Osimo, ma nella vicina Ancona. La prima volta che l’hai rivista al Gemelli, Chiara ti ha riconosciuta? No, io ero per lei solo il medico fisiatra; poi pian piano, entrando nel rapporto, mi sono fatta conoscere come una che era stata una gen; inizialmente anche le focolarine che l’assistevano mi davano del lei. Si ricordava di Graziella, la tua mamma? Credo di sì. Anzi l’ha pure incontrata. Per degli accertamenti avevo accompagnato mia madre al Gemelli proprio una mattina in cui Chiara faceva un po’ di riabilitazione in palestra. Stando un po’ meglio, mamma ha potuto salutarla (diversamente, per non affaticarla, erano sconsigliate le visite). Chiara non le ha parlato, solo l’ha guardata con degli occhi in cui leggevo tutta la sua sensibilità, la sua partecipazione. E ciò bastava. Torniamo al tuo compito di medico… Qual è stato il tuo rapporto con una paziente come Chiara? Con lei non ho fatto solo la fisiatra, ma anche la fisioterapista: soprattutto nel 2006, perché nel secondo ricovero, causa l’infezione polmonare, non è che potesse fare tanta riabilitazione se non una mobilizzazione a letto. Senonché, nei giorni festivi, di solito gli infermieri non mettono in piedi il paziente, un po’ per mancanza di tempo e un po’ perché sono abituati a ricevere disposizioni e non a prendere l’iniziativa. Così, in quei giorni ero io a far fare a Chiara le reazioni di raddrizzamento, di equilibrio, a metterla in posizione seduta. Al che gli infermieri, sorpresi nel vedermi occupata a farle fare gli esercizi, da allora si sono impegnati personalmente. Per cui è stata anche un’esperienza professionale interessante col personale infermieristico, che ha preso più consapevolezza del suo ruolo nella riabilitazione. Col proprio fisioterapista, immagino, un paziente instaura un rapporto a volte più profondo che con altri medici… È vero. Con Chiara, comunque, il rapporto, più che di parole, era fatto di sguardi. Per esempio, durante il primo ricovero, quando le ho detto che in maggio sarei andata in Germania per partecipare, a Stoccarda, al grande incontro ecumenico Insieme per l’Europa, mi ha sorriso e guardandomi con quegli occhi suoi luminosi ha detto semplicemente: È una bella cosa. Non sono mancati momenti scherzosi. Premetto che, forse perché insegno all’università, quando faccio il medico assumo anche nel reparto una certa aria professorale. Con Chiara un po’ mi trattenevo, ma una volta, vedendo che lei non riusciva a fare un esercizio, l’ho interpellata in maniera piuttosto decisa: Bisogna farlo, così fai la volontà di Dio. Appena me ne sono resa conto, per buttarla sullo scherzo, ho proseguito: Come vedi, Chiara, l’allievo supera il maestro!, suscitando il riso delle focolarine e anche di lei. Quando non ha avuto più bisogno della fisioterapia ed è stata dimessa, andavo a trovarla a Rocca di Papa una volta al mese; ormai Anna Paula, la focolarina infermiera che l’assisteva, aveva imparato bene tutti gli esercizi, e Chiara faceva tutti i giorni quelli che le avevo assegnato. Nel febbraio scorso nuovo ricovero al Gemelli per un controllo di routine. Lì, invece, le cose sono precipitate… Sì, e una mattina a un’infermiera ha detto una frase come: Per me adesso è il momento di soffrire. L’ho saputo dalla caposala, a cui l’aveva riferito l’infermiera. Erano frasi che colpivano, che entravano nel cuore perché non erano solo parole, erano realtà vissute. Quando hai avuto sentore che quelle erano forse le ultime volte in cui vedevi Chiara in vita? Forse questa percezione l’ho avuta solo il giorno prima che venisse ricondotta a casa. Sarà forse per il fatto di essere fisiatra che ti fa sempre pensare in positivo, e quindi speri fino all’ultimo. E adesso? Quando l’ho conosciuto, l’ideale dell’unità mi aveva conquistata, ma probabilmente non avevo interiorizzato tante cose che sto capendo solo adesso… Questa condivisione col dolore di Chiara, da lei vissuto nell’amore, mi ha trasformata, ha lavorato dentro di me. E adesso me la sento molto più vicina di prima.

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