Il trionfo del piccolo Davide

Dopo vent’anni d’astinenza il Toro rivince un derby. Pensieri sparsi di tifoso in un lunedì mattina diverso dagli altri
derby

E’ vero, tra assalti e bombe carta, certi fuori di testa la festa han provato a rovinarcela. E’ vero, con quel che è successo in Nepal e coi drammi dei barconi di questi tempi c’è ben poco da festeggiare. Ma ogni volta che un piccolo Davide riesce a far nero un qualunque Golia, è come se un altro piccolo seme di speranza si piantasse nel cuore dell’umanità tutta. Specie se erano due decenni che non capitava. Dunque sì, almeno stavolta sì, per noi del Toro c’è di che godersela, e alla grande: perché anche di queste minuterie è fatta la vita, per fortuna.

D’altra parte un derby, soprattutto a Torino, non è solo una partita. E’ il confronto tra due visioni del mondo e dell’esistenza umana: da una parte chi li concepisce come una serie di battaglie da vincere, dall’altra chi prova a ribaltarne i cliché e a sfidarne i postulati; da una parte lo champagne, dall’altra il barbera. Logico dunque che si vincano – e si perdano – in modo infinitamente diverso. Chi tifa Juve gode di una vittoria come può godere un ragioniere quando gli tornano i conti; noi come se avessimo azzeccato un terno secco. Non c’è proprio paragone, ed è ovvio che ai primi capiti più spesso che ai secondi, così come è evidente che intensità e durate siano inversamente proporzionali alle probabilità. Idem dicasi per le sconfitte: i gobbacci (dispregiativo affettuoso che da tempo immemorabile affibbiamo ai cugini) ci s’arrabbiano, noi, semplicemente, soffriamo.

Erano vent’anni che non accadeva (“ora, ve ne aspettano altrettanti”, già gufano i pigiamini, manco fossimo la cometa di Haley). Vent’anni di illusioni e frustrazioni a vederli dominare Campionati e sbriciolare rivali con la stessa grazia di una mietitrebbia. Ma nel frattempo il piccolo Davide s’irrobustiva, e soprattutto rafforzava la convinzione che se vuoi tentare il colpo gobbo, non basta affidarsi a un rito propiziatorio: occorre darci dentro, superare se stessi e i propri limiti sfruttando quel poco che si ha; occorre pianificare, elaborare strategie, costruire convinzioni ed abbattere sterili lamentazioni. E così è stato, almeno stavolta. Grazie al pragmatismo di Ventura e all’applicazione di un manipolo di ragazzotti che non sono certo dei fuoriclasse, ma tanto meno dei brocchi.  Sicché quei due colpi di fionda con cui ieri s’è annichilito il Colosso non son arrivati per caso o buona sorte (per quanto senza quest’ultima non c’è applicazione che tenga).

Ma non son certo qui a fare il Brera, ché oggi c’è solo da godersi l’attimo. E anche in questo noi siamo sommamente speciali, inarrivabili almeno quanto negli struggimenti: perché sappiamo assaporarcelo in ogni retrogusto e sottinteso, perché sappiamo preservarlo nel Tempo fino a renderlo immortale. Come è accaduto con la tragedia di Superga e quella di Meroni, con lo scudetto del ’76 e quel derby del ’83 vinto con una rimonta di soli 124 secondi. Per questo i cugini non sono in grado di capire, né tanto meno di provare quel che in queste ore andiamo condividendo fra le centurie di  confratelli sparsi per il mondo: neppure se, puta caso, gli capitasse di vincere la prossima Champions League… Sto gufando? Ma certo che sì!

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