Il travaglio dei democratici e una scelta per non disertare

Mentre il Pd vive le convulsioni per le prossime primarie dell'otto dicembre, Romano Prodi annuncia che non rinnoverà la tessera e non voterà per la scelta del prossimo segretario: è forse un appello ultimo perchè si ritrovi cultura e valori, saggezza e visione?
Romano Prodi

Mentre il Pd vive le convulsioni del tesseramento e della assemblee territoriali, in attesa delle primarie dell’8 dicembre, con quattro candidati in pista, irrompe la notizia: Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo e padre del Partito democratico decide di non rinnovare la tessera e di non andare a votare per scegliere il prossimo segretario.

Nel momento in cui vecchi e nuovi cercano di salire sul carro del possibile vincitore, Romano Prodi decide di prendere un’altra strada, non fatta di chiacchiere, ma di  coerenza di  visione e di comportamenti, rivendicando una libertà dal potere, senza la quale la politica diventa solamente schiavitù verso gli interessi, le lobby, i gruppi di potere, le logge e i grembiuli.

È questa coerenza di visione e di comportamenti che ha fatto di Romano Prodi uno dei grandi cattolici europei, figura di prestigio internazionale, capace di parlare ai mondi emergenti, come la Cina e ai mondi sofferenti come l’Africa, con il linguaggio della verità e non dell'astuzia. Al tempo stesso ha saputo ascoltare la nuova stagione dei diritti sociali dei popoli del Sud del mondo.

Il cattolicesimo democratico italiano, che ha prodotto la Costituzione, l’unico vero progetto culturale del nostro Paese, ha saputo guardare lontano, pensando all’Europa come grande soggetto di pace e come comunità, che non esclude nessuno ma include tutti, rispettando i diritti e i doveri di ciascuno. Quando il Paese ha vissuto all’inizio degli anni ‘90 una stagione drammatica la proposta culturale e politica dell’Ulivo ha cambiato l’orizzonte, ha dato speranza, ha reso l’Italia protagonista del processo di allargamento e riunificazione europea.

Certo in questi venti anni la destra ha giocato con spregiudicatezza la sua partita, arrivando a manipolare le regole del gioco, con l’avallo astuto di ambienti ecclesiastici, ma il vero nemico di questa nuova stagione del cattolicesimo democratico non è venuto da fuori, ma da dentro, da settori del popolarismo sfiniti dalla storia e dalla consunta tradizione comunista, a cui è rimasto solo il potere per il potere.

Una nuova responsabilità dei credenti domanda di essere lievito nella massa, per fecondare una nuova stagione di governo del Paese. Prodi ha rappresentato e rappresenta questo, pur tra sconfitte e limiti, in una parabola originale che lo ha portato fino alla soglia del Quirinale.

Il Pd sembra avere scelto un’altra strada, preso tra il giovane politicismo nuovista tutto retorica e superficialità e i vecchi “rottami” che sono l’eterno ritorno dell’uguale e ha deciso di sciogliersi in una lotta tra bande e notabilati, dove chi vincerà non farà prigionieri. In questo modo il partito è entrato in un gorgo che ormai sembra travolgerlo.

Il gesto di Prodi di non votare alle primarie è un estremo appello, prima che tutto precipiti, perchè ritrovi cultura e valori, saggezza e visione, senza i quali perirà anche il Paese. La grande tradizione cattolico democratica da Giuseppe Dossetti a Giorgio La Pira, a Giuseppe Lazzati fino ad Aldo Moro, Nino Andreatta e allo stesso Prodi appare ancora un riferimento insostituibile, se si vuole il cambiamento.

Ci si deve domandare se i giovani cresciuti, nella Chiesa italiana, negli ultimi trent’anni, pieni di ambizione politica non conoscano più questa tradizione, o per meglio dire, abbiano scelto di seguire cattivi maestri del potere politico e religioso.

Ma c’è anche un’altra questione sul tappeto ed è quella del rinnovamento della classe dirigente. Non basta avere l’anagrafe dalla propria parte, è necessario avere la cultura come ascolto del dolore civile del Paese, pensare e osare la pace come grande politica dei popoli, costruire una politica economica solidale che non lasci indietro nessuno evitando improvvisazioni e superficialità e cercando di federare ciò che oggi appare sbriciolato in mille interessi corporativi. Tutto questo ha il suo fondamento nella Costituzione, che appare ancora oggi lampada ai passi incerti di un Paese ferito nella sua dignità e sfinito da una politica che dimentica i più piccoli.

Il populismo dell’uomo solo al comando, che diventa fame mai saziata di potere, può distruggere più generazioni di giovani, che cercano di uscire dal loro recinto. Il gesto di Prodi, nella sua asciuttezza, indica che c’e’ un oltre, che si può realizzare, se si accetta la fatica esigente della politica, fuori dai salotti del potere che molti frequentano e desiderano frequentare.

Per i credenti questa è la sfida dello stare nello spazio pubblico come lievito nella massa. È qui che si misurano le somiglianze e le differenze. Se oggi dobbiamo con urgenza costruire e rafforzare l’Europa, la differenza tra Tony Blair e Romano Prodi è abissale, ben oltre la discussione logora e stantia tra popolari e progressisti. Se dobbiamo avviare una nuova e coraggiosa politica economica e del lavoro, non basta  ingaggiare l’ultimo economista alla moda. Ci vuole ben altro e ci vuole ben altra conoscenza dei problemi e ben altra sapienza.

In questo quadro non andare a votare non è un gesto di diserzione, ma un appello drammatico alla responsabilità di ciascuno prima che sia troppo tardi.

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