Il ritorno del cimema “impegnato”

Mai fare pronostici. Potrebbero essere clamorosamente smentiti come è avvenuto in questa edizione dove tutti erano pronti a scommettere su Volver di Pedro Almodòvar e invece ecco, a sorpresa, spuntare The Wind that shakes the Barley dell’inglese Ken Loach, presentato nel primi giorni del Festival e poi dimenticato dal chiacchiericcio di quanti si vantavano di aver avuto la soffiata sicura. Qualcuno ha subito commentato che la Palma d’oro al film di Ken Loach sa tanto di premio alla carriera, ma altri verdetti politici come quello assegnato a Indigenes di Rachid Bouchareb (dedicato alle truppe di colore francesi durante la Seconda guerra monndiale) confermano che il vento di Cannes è girato e che alle tendenze cinefile si sono sostituite quelle del vecchio cinema militante. La vocazione autoriale di Cannes è stata in parte controbilanciata con il Gran Premio assegnato a Flandres di Bruno Dumont, ma anche qui i messaggi politici sono presenti, così come lo sono in Babel del messicano Alejandro Gonzales, premiato per la regia. Allo stesso modo sanno di clima assembleare e di collettivi i palmarès corali per gli interpreti: alle attrici di Volver e agli attori di Indigenes, entrambi premiati in gruppo. Il titolo del film di Ken Loach è tratto da una tradizionale ballata irlandese e significa il vento che scuote l’orzo. Il vento della canzone si riferisce ai fermenti indipendentisti irlandesi e alle tensioni scoppiate nel 1916 in seguito al rifiuto da parte del governo inglese di riconoscere l’indipendenza dell’Irlanda. Gli orrori di quel conflitto, sui quali le vicende della Prima guerra mondiale misero la sordina un po’ per motivi di priorità e un po’ perché gli inglesi erano nostri alleati, sono stati rievocati da Ken Loach in base a una scrupolosa ricostruzione storica basata su memorie e documenti d’epoca, che tuttavia acquista un valore di attualità per il fatto che la loro ombra si allunga fino ai giorni nostri e a situazioni del tutto identiche. Anche senza espliciti riferimenti, la stessa aria si respira in Flandres di Bruno Dumont, regista dalle gelide asprezze e di film duri e spigolosi come L’età inquieta e L’humanité. Dumont non racconta una storia, ma la demolisce mettendone in scena i risvolti più amari, più crudi e disperati: Flandres sono i ragazzi delle Fiandre, finiti in una lurida guerra che potrebbe essere in Iraq, in Afghanistan o in qualsiasi altra parte del mondo. Tanto la sostanza non cambia. Questo globalismo in negativo si affaccia anche dalle parti di Babel di Alejandro Gonzales Inarritu (autore di Amores perros e 21 grammi), che trae il titolo dalla biblica torre per contrapporre un mondo reso sempre più piccolo dallo sviluppo delle comunicazioni alle distanze spirituali fra gli esseri umani, che inve- ce diventano sempre più grandi. Nei suoi precedenti film Gonzales Inarritu aveva saputo abilmente intrecciare più storie fra loro fino a ricomporle in un filo conduttore capace di coinvolgere più destini in un unico ordito. Lo stesso avviene in Babel, dove, anche se lo scenario si dilata a dismisura, il significato conclusivo non cambia. Pedro Almodovar ha dovuto accontentarsi del premio per la miglior sceneggiatura e della Palma al blocco delle sue splendide attrici. Seconda delusione in pochi anni, perché nel 1999 anche Tutto su mia madre fallì il bersaglio della Palma d’oro. Buca per gli italiani, ma c’era da aspettarselo. Il caimano di Nanni Moretti aveva dalla sua le chances per trionfare nell’high parade di casa nostra, ma ha lasciato del tutto indifferente una giuria internazionale; Anche libero va bene di Kim Rossi Stuart ha pagato lo scotto dell’operaprima, di alcune debolezze strutturali e di un malinconico buonismo che al cinema non è di moda; L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino ha risentito di quel dolente distacco e di quelle atmosfere straniate che già pesavano su Le conseguenze dell’amore. Anche Marco Bellocchio, che con Il regista di matrimoni concorreva nella sezione Un certain regard, è rimasto a bocca asciutta. Completando un poco invidiabile poker al nero: bilancio fallimentare che dovrebbe indurre al mea culpa il nostro cinema e stimolarlo a riflettere seriamente sul suo stato di malessere.

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