Il ritorno del belcanto

Il ritorno del belcanto
Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia. L’Italia è ancora la terra del canto bello, quello – a dirla con Rossini, sulla scia di Petrarca – che nell’anima si sente? Rossini intendeva un canto come espressione spontanea del sentimento, quindi non gridato, ma melodioso, dove la voce si potesse esprimere nelle sue quasi infinite sfumature a dire la grande varietà di affetti, ovvero di emozioni, del cuore umano. Così era pure per Bellini e Donizetti e, in parte, per il primo Verdi. Poi, con la graduale scomparsa dei maestri del canto bello e il repertorio verista abituato a forzare la voce, quel modo di porgersi all’ascolto fluente, limpido, si è andato perdendo. Bruno Cagli, sovrintendente dell’Accademia ceciliana, ha ideato allora il primo Belcanto Festival. Ha chiamato tre giovani tenori (ahimè, nessun italiano), memore della formula (furbetta) del trio Carreras- Pavarotti-Domingo ad aprirlo, continuando poi con primedonne con Mariella Devia e Cecilia Bartoli per chiudere con la belliniana Norma, diretta da Kent Nagano e interpretata da Micaela Carosi e Sonia Ganassi: opera di un bellezza terribile, dove alla voce è richiesta la potenza del dramma, il fuoco della passione e la malinconia, molto mediterranea, del dolore. Il concerto inaugurale, diretto da Carlo Rizzari, ha presentato arie di Rossini, Donizetti e Bizet, ossia il canto pulito, legato, del primo Ottocento italiano scivolando fino a Bizet, al suo I pescatori di perle, soffice fino allo struggimento, com’è dello stile francese. Cosa si prova ascoltando il Rossini funambolico di Cenerentola o dell’Italiana in Algeri, il Donizetti patetico al punto giusto dell’Elisir o del Dom Sebastien? Una grande gioia. Un sentire la bellezza della voce umana che esce dalla gola, certo, ma soprattutto dall’anima e ne dice i pensieri più intimi. Non si tratta di gorgheggi, di variazioni, di effusioni sentimentali, ma di parole del cuore. In un’epoca, la nostra, dove non si vive il saper ascoltare, le tre voci (virile quella dell’americano John Osborne, vellutata quella di Celso Abelo da Tenerife, chiaro il timbro dell’inglese Barry Banks, tutti dalla pronuncia italiana perfetta), unendo sapienza tecnica a sincero amore per la loro arte, hanno provocato in sala quel tipo di silenzio – raro – dove la musica si rivela come una grazia. Essa rende possibile dare al canto il suo vero senso: un parlare, un dirsi, persona a persona, ciò che di più nobile si ha nell’anima. In forme di bellezza naturale, diretta, senza artifici. Non è poco. C’è davvero tutto un mondo da (ri)scoprire. CLASSICA DISCHI Roberto Prosseda in Mendelsshon, 56 Lieder ohne Worte. Doppio cd, Decca. Il tocco elegante di Prosseda dà anima agli scintillii, ai giochi, ai sussurri emotivi del romanticismo felice medelsshoniano. Con un senso del legato e della libertà espressiva molto belli il pianista va oltre il pudore dell’autore, ne estrae emozioni impalpabili, ma ancora vive. Da non perdere.

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