Il pubblico, il privato e l’appicca abiti

È particolarmente attesa la possibilità di parlare in una piazza come Città Nuova di cose così controverse e veramente disarmanti, come quelle che ormai da giorni siamo costretti a ingurgitare in ogni fast food mediatico.

 

Almeno qui vi è una chiara e condivisa premessa antropologica: nessuna diversità di opinione può farci perdere di vista quella tensione all’unità che non significa assolutamente uniformità. Quindi rispetto per chi intende trovare le ragioni del Premier, sia per chi da lui è distante anni luce. Ma anche sintesi per trovare una via innovativa per ridare senso alle cose.

 

Personalmente sono alla ricerca profonda di chiarezza su privato, pubblico e politica e così discorrendo. La sollecitazione è rappresentata dalla nota di Luciano Sulis: nella sua attenta, ma da me non sempre condivisa analisi, dice che vi è distinzione tra vita privata e atti politici. Pur con il rischio dell’irriverenza, domando al vecchio amico Luciano se non sarebbe come mangiare un bel cannolo siciliano con la pasta croccante e fragrante, ma con un ripieno un po’ rancido.

 

E in questo dialogo a distanza, mi piacerebbe far intervenire, come in un bel talk-show (quanta nostalgia di quelli seri….!) un personaggio, patrimonio inesauribile anche per la storia di Città Nuova: Igino Giordani, che ha attraversato il Transatlantico di Montecitorio nei fasti della Costituente e delle prime forti battaglie tra Dc e Pci.

 

Una citazione di Giordani sembra, nonostante il forbito ed aulico suo italiano, di straordinaria contemporaneità: «Immettere nello sforzo politico l’anelito a Dio (…) equivale a dare alla politica un’anima e quindi uno slancio, sì che essa diventi impeto di santificazione. Sia sacerdozio regale: apostolato di uomini politici. Per esso i corridoi dell’intrigo, le aule del pettegolezzo, gli uffici della concussione, diventano stanze d’un grande tempio: il tempio del mondo, una volta redento, redenzione che Cristo vuol fare con le opere degli uomini» (Igino Giordani, Il popolo di Dio in cammino, Roma 1967)

 

Ma la fede non è un fatto solo privato, da tenere nel foro intimo della coscienza? No! Risponde Giordani, già nei primo anni Venti, quando il fascismo vuole ridurre il cristianesimo ad un mero fatto privato che non incide sulle forme della convivenza civile. No, «la carriera di Arcigallo in finestra non ci interessa», bisogna uscire dalle sacrestie.

 

«…Non si capisce perché i cattolici dovrebbero sottrarvisi. Anziché dare il buon esempio. Anziché portare lo spirito cristiano nella  politica, tanto più se non è santa, cioè se ha più bisogno di cristianesimo. A meno che debbano comportarsi da cattolici finché vanno in Chiesa o fuori porta a spasso con la prole e debbano poi appendere come una guarnacca (una sorta di soprabito) a un chiodo nel pronao del tempio laico della Politica il loro cattolicesimo, nel momento che si accingono a operare quali cittadini responsabili. Comunque si gira si arriva a una vivisezione o della politica o del cattolicesimo, o dei cattolici o dei cittadini». (Igino Giordani “La vigna di Jezabele”, in Fides, novembre 1938)

 

Poi la frase della giacca fu ripresa in modo più “moderno” col suo personale impegno politico: «E che, quando entriamo in Parlamento appendiamo il nostro abito di cristiani all’appiccapanni?»

 

In questo labirinto dove l’uscita è ardua occorre un po’ di chiarezza. Se non è la Fede, dono evidentemente non condiviso da tutti, siano altri valori, e ce ne sono altamente significativi in ogni cultura, a non far appendere gli abiti né in Parlamento, né nei condomini, né nelle ville.

 

Rimanere nella arzigogolata conchiglia giudiziaria, condita di intercettazioni, chiedendoci all’infinito se è giusto o no e alternativamente prendere le difese dell’uno o dell’altro, ci farà girare come un vortice infinito e potrebbe far perdere di vista il vero significato delle cose: il vaso sia a destra che a sinistra, passando per il centro, è il colmo. O c’è un sussulto di dignità o vi sarà non tanto l’assalto al Palazzo d’Inverno, ma piuttosto una fuga da esso senza rapido ritorno.

 

Paolo De Maina

 

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