Il prosecco contestato di Refrontolo

Meglio i vitigni piantati a tutti i costi o le zone incolte, sempre più vaste, che la natura si sta riprendendo in maniera incontrollata creando seri problemi? Una riflessione dopo le vittime provocate dall’esondazione del torrente Lierza
Refrontolo

Lo ammetto: quando ho ricevuto la richiesta di scrivere qualcosa su quanto accaduto a Refrontolo, a pochi km dal paese dove sono nata e cresciuta, mi sono trovata in difficoltà. Avevo pensato di proporre un articolo, ma poi ho rinunciato: perché, molto banalmente, non avrei saputo che cosa aggiungere alle miriadi di articoli apparsi sui giornali.

Il delizioso e sconosciuto mulino ora sulle prime pagine di tutti i quotidiani è stato meta di diverse gite domenicali, la mia famiglia conosce una delle vittime, e diverse persone del mio paese si sono recate sul posto per dare una mano: rimestare nelle testimonianze di chi ha visto la tragedia, o dilungarsi in dotte dissertazioni sul dissesto idrogeologico di cui sento parlare da quando ero alla scuola elementare, davvero appare fuori luogo e spinge a preferire il silenzio.

Eppure qualcosa da dire forse c'è. Soprattutto c'è da evitare semplificazioni nel puntare il dito contro i viticoltori, dipinti come i responsabili di quanto accaduto e «devastatori» del territorio. Che in una terra che vive di prosecco e di piccole imprese si sia costruito e piantato in maniera dissennata – magari lasciando poi i capannoni vuoti, o ottenendo uve di qualità inferiore perché cresciute su terreni non adatti – è fuor di dubbio: le denunce non solo da parte delle associazioni ambientaliste, ma anche dei comuni cittadini, si susseguono da anni.

Complice non solo la compiacenza delle normative in materia, ma anche di chi dovrebbe farle rispettare: «I disciplinari parlano chiaro su dove sia consentito piantare e dove no per poter vendere il proprio vino come prosecco doc o docg – osserva Luca De Rosso, giovane titolare della cantina Le Volpere -, tanto è vero che nel nostro caso chi di dovere ha eseguito tutti i controlli in merito. Non capisco come altri, invece, siano riusciti ad aggirare queste norme».

Norme che, peraltro, spesso stimolano una competizione esasperata: lo stesso identico vitigno rende1 euro e 30 centesimi al kg se coltivato su un terreno classificato come docg – su cui i diritti di reimpianto vengono acquistati a caro prezzo -, 70 centesimi su terreno doc, e appena 40 centesimi (poco più dei costi di produzione) su altri terreni: chiaro che la corsa al doc e soprattutto al docg è forsennata, per quanto quest'ultimo renda 135 quintali per ettaro contro i 180 del doc, e arrivi a scadere nella speculazione e nel terrazzamento del terrazzabile sulle colline.

Certo, si dirà, su quelle colline una volta c'era il bosco: però tanto, tanto tempo fa – io, pur nella mia giovane età, ricordo di aver sempre visto ben pochi alberi -, e anche là dove è rimasto è spesso abbandonato all'incuria. I miei nonni andavano a fare legna e tenere sgombri strade e sentieri che portavano a quei luoghi e soprattutto i corsi d'acqua che li lambivano. Io certo non lo faccio più, né credo lo faranno i miei figli.

Ed è opinione diffusa che l'abbandono non sia preferibile ai vigneti: «Di fronte al mio terreno c'era un bosco da cui le frane cadevano spesso dopo le piogge – racconta Luca -: ora l'ha acquistato un viticoltore che ha provveduto ai sistemi di drenaggio e consolidamento, e da allora non ce n'è più stata nemmeno una. Se l'opera è fatta bene, nell'interesse di tutelare la collina e il proprio stesso lavoro, la viticoltura può rappresentare la salvezza invece che la devastazione di certi pendii. Poi, se il bosco sia preferibile o meno alle viti, è un altro discorso: certo non lo è un bosco abbandonato».

Vabbè, ma lui è di parte, direte: però è un fatto che non solo sulle colline, ma anche nella Dolomiti e nelle Alpi Friulane, le zone incolte sempre più vaste che la natura si sta riprendendo in maniera incontrollata iniziano a creare seri problemi. Perché, là dove l'uomo ha ormai rotto l'equilibrio che c'era in precedenza, il bosco non può ricostruirlo da sé in pochi anni. Forse è arrivato il momento, come dice Luca, di riscoprire un'agricoltura «virtuosa», perché sia la salvezza e non la rovina del territorio. Quei morti saranno comunque morti invano: ma invano non saranno state tutte le parole che ne sono seguite.

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