Il mondo sull’autobus

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Il mondo visto su un autobus è diverso da quello visto per strada: puoi vederlo tutto in una volta, come alla televisione, solo che qui è tutto vero e le persone non interpretano nessuna parte, si limitano ad essere sé stesse, senza finzioni. Io questo spettacolo lo guardo con grande attenzione, non mi perdo una puntata, ricordo a memoria la trama, anche se non c’è una vera trama. Piuttosto qualche volta, guardando fuori dal finestrino, puoi incrociare gli occhi di qualcuno sul tram che ti passa accanto, che improvvisamente si ritrova davanti la tua faccia stupita, e pensi: incredibile, sono riuscito a cambiare canale! Vi confesso che quando devo scendere quasi mi dispiace. È un condensato di storie, facce che per un breve tempo si ritrovano così vicine da avere l’illusione di andare nella stessa direzione. Un campione d’umanità che la dice lunga su come gira la vita, quali sono gli impegni della gente (li capisci dai vestiti che indossa), quali i sogni (glieli leggi negli occhi), quali i bisogni (basta vedere quello che si porta dietro). Per inciso, qui a Varsavia la gente sugli autobus porta davvero di tutto, non si fa problemi. Ho visto salire persone con pezzi di lamiera lunghi quasi due metri, che ad ogni frenata mettevano in serio pericolo l’incolumità dei passeggeri, sportelli d’armadi portati sotto braccio come quotidiani, poltrone smontabili sulle quali volendo ci si poteva anche sedere, carrozzini bigemellari destinati ad incastrarsi nelle portiere, enormi cani per i quali ci si è affrettati a lasciare il doveroso spazio (in Polonia il cane è un animale sacro). Spazi, distanze È proprio tutta colpa delle grandi città se siamo costretti in spazi insufficienti, come un autobus appunto, “così vicini così lontani”? A volte, la mancanza di spazio può essere effetto di un disagio interiore più che esteriore. Io quando mi sento stretto nella mia “stanza”, cerco semplicemente di trasferirmi in quella dell’altro. Comincio a guardare quanto è alto il soffitto, quanto spesse sono le pareti, se c’è una finestra e dove affaccia. Mi interesso dell’arredamento, per poi passare all’inquilino: quali sono le sue letture preferite, i suoi interessi; e con lui mi trattengo in conversazione, lo ascolto. Mi hanno insegnato a fare così e devo dire che funziona, ci si sente decisamente meglio dopo, più liberi. Dialogo “Non riesci proprio a guardare da un altra parte?”. “Scusa”. “Perdonato. Dimmi almeno cosa attira la tua attenzione, non ho mai pensato di essere bella”. “Non è la tua bellezza che mi attira”. “E cosa allora?”. “Preferisco non dirtelo, ti metteresti a ridere o rimarresti male”. “Avanti, sentiamo”. “La tua tristezza “. “Questa è bella! Non sapevo che la tristezza potesse essere attraente “. “La tristezza non è bella come non è brutta. È un’altra cosa”. “Cosa?”. “È diversa sulla faccia degli uomini e su quella delle donne. Per l’uomo è più difficile accettare i propri limiti, scoprirsi un dio mancato. Alcuni reagiscono male: disillusione, abbattimento, depressione. Altri fanno di questo il motivo della loro ascesi…”. “Continua, mi interessa. E sulla faccia delle donne, com’è la tristezza?”. “È piuttosto attesa di qualcuno che un giorno mantenga la promessa di un amore possibile, e restituisca loro la felicità che solo da bambine hanno conosciuto, senza immaginare che lo era e che un giorno, su un autobus, si sarebbero sorprese a ricordare e rimpiangere”. “Tu saresti quell’uomo ed io la bambina distratta che si è lasciata sfuggire la felicità?”. “Tu non sei una bambina ed io non posso darti la felicità che cerchi”. “Cosa puoi darmi invece?”. “Non vorrei deluderti ma non ho niente da darti, piuttosto qualcosa da chiederti”. “Ci vuole coraggio! Chiedi dunque “. “Adesso che scendi, lasciala a me”. “Che cosa?”. “La tua tristezza”. Stefcia Con due vecchie borse e la schiena curva si avvicina alle portiere per scendere. “Lasci che le dia una mano”. “Non si preoccupi, ce la faccio, grazie. Sono leggere”. “Vuol dire che non ci stancheremo. Dove abita?”. “In via Lucerna, dopo il negozio di alimentari”. “Anche io abito da quelle parti, l’accompagno”. “È Dio che la manda. Come si chiama?”. “Stefan”. “E io Stefcia. Che bella coincidenza!”. “Posso chiederle cosa porta in queste borse?”. “Fiori. Li compro al mercato a pochi soldi e li rivendo in piazza. Sono belli… glieli faccio vedere”. Stefcia apre la borsa e tira fuori un mazzetto di fiorellini molto modesti. Me li mostra come fossero una rarità, e in certo modo lo sono. “Peccato, oggi non si è fermato nessuno a comprarli. Stamattina era bel tempo, poi è venuta giù una pioggia, così ad un certo punto sono venuta via. Alla mia età debbo stare riguardata. Ho 81 anni, sa? L’età del papa. Che grande uomo, questo papa. È una stella che guida l’umanità. Lei è credente?”. “Sì, e anche io amo il papa. È il miglior polacco che conosco”. “Io leggo la Bibbia tutti i giorni. Non è che capisco tutto. Sa, non ho studiato, subito dopo le elementari ho iniziato a lavorare in campagna. Ma non mi lamento. Guadagno a sufficienza, e a me basta poco. Riesco anche a mettere da parte qualcosa per aiutare una signora che abita vicino casa mia. Lei sì che è povera”. “A quanto li vende questi bei mazzetti?”. “Costano poco, solo due zloty”. “Quanti gliene sono rimasti?”. “Aspetti che li conto… Sono dodici”. “Allora fanno 24 zloty. Li compro “. “Davvero, tutti?”. “Certo, meritano! “. Stefcia dispone con cura undici mazzetti in una busta, poi prende il dodicesimo e dice: “Questo glielo regalo. Vedrà, le riempiranno la casa di un buon profumo”. “Così mi ricorderò di lei”. Torno a casa con una leggerezza infinita nel cuore. È il regalo di Stefcia. La gente così, quando muore, va dritta in paradiso. Anime lievi, che vivono di niente e sono felici. Bisogna essere un po’ angeli per raggiungere quella lievità. Stefcia evidentemente lo è. Magari la sua schiena a mezza luna è un paio di aliraggomitolate e le borse l’unica zavorra, leggera zavorra di fiori, che la tiene ancora sulla terra. Il matto Il matto a volte sale qualche fermata prima che io arrivi a casa./ È così magro che la cinta gli gira due volte intorno alla vita;/ nei pantaloni c’entra il maglione insieme alla camicia/ e c’entrerebbe anche il cappotto, se solo ce l’avesse./ Il matto ti attacca un discorso antico come il mondo,/ che ha cominciato un giorno e non ha più finito:/ cosa voleva dire e a chi, se l’è scordato./ Ma non importa, se perde il filo lo riprende;/ ha tante cose in testa e le vorrebbe dire a tutti/ tutte in una volta, ma non riesce a dire niente./ Il matto quando sale ci mette tutti sull’attenti./ Qualcuno sorride, qualcuno si fa serio, qualcuno si rattrista:/ un matto mette sempre un po’ di tristezza; chissà perché?/ Sembra che si rivolga a te e invece si rivolge a quello accanto;/ quello accanto ha l’impressione che si rivolga a un altro ancora./ Il matto in verità non parla con nessuno, ché nessuno lo capirebbe./ Chissà chi era, nella vita, il matto? Io me lo sono chiesto./ Magari era una persona normale, prima di diventare matto s’intende;/ aveva una fami- glia, andava al lavoro, leggeva il giornale./ Poi qualcosa è andata male ed è diventato matto, completamente./ Io, se ci penso che uno, così, da un giorno all’altro/ smette di essere normale, quasi ci esco matto, anch’io./ Si dice che siano dei grossi dolori a fare fuori, non lo so./ Dicono pure che a un certo punto ti si rompe qualcosa dentro,/ puff e tutto perde senso, diventa strano, esci di senno:/ una roba del genere, voi ci capite qualcosa? Io no./ Il matto, non è escluso che un giorno abbia capito/ qualcosa che noi evidentemente non capiamo;/ e questo è il dramma, che noi noncapiamo, per fortuna,/ perché lui invece ha capito, poveretto, ed è impazzito./ Il matto una mattina l’ho incontrato, sembrava normale:/ sedeva in silenzio e ci guardava, non come fa di solito/ con lo sguardo ovunque e dunque da nessuna parte;/ ci guardava ad uno ad uno, con gli occhi seri./ Mi ha fatto un po’ paura./ Poi è sceso(1). Sordomuti Non è facile parlare a dieci metri di distanza, sommersi dalla folla, mentre il motore macina un rumore enorme. Ad essere precisi è quasi impossibile, a meno che non si sia sordomuti. Allora è facile. Non serve alzare la voce, basta alzare le mani, al di sopra di teste, zaini, turbolenze, e dirsi, a dispetto di un mondo che non sente, quello che ci si deve dire. Dirselo con le mani, con gesti che sono parole dispiegate. Vi osservo con un pizzico di invidia. Sarebbe bello possedere la chiave per decifrare quell’universo di parole mute sgranate tra le dita, che è il vostro alfabeto, il vostro modo di dare un nome alle cose, di dirle. Deve essere qualcosa di simile a dirigere una musica che non puoi sentire. Uno di voi s’è accorto che vi sto osservando ed è diventato serio. Uno dell’altro mondo – avrà pensato -, il mondo dei suoni e delle parole, ma anche dei rumori, delle grida. Uno di quelli che ci osserva come fossimo soggetti da studio. O peggio ancora, ci compiange. Vorrei che capissi che non è così. Se mi guardi bene negli occhi, non troverai né curiosità, né compassione. Piuttosto meraviglia, di fronte ad una cosa normale fatta in modo singolare. Vale a dire: parlare, ma con le mani, e ascoltare con gli occhi. Di più: restituire ad un mondo, che è frastuono e calca, il silenzio e lo spazio, presupposto per una vera comunicazione. Stai scendendo. Ti sorrido con gli occhi; con le mani non so farlo. Mi sorridi anche tu. Forse hai capito.

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