Il lavavetri di Ginevra

«Quel sacerdote stava facendo quello che aveva fatto il ragazzo dell'area India-Pakistan: togliere ciò che altera la visione della realtà».
Lavori

Dal sedile della sala d’imbarco guardo attraverso le vetrate il traffico dell’aeroporto di Ginevra. Il sole è incapace di vincere la compatta coltre di nuvole bianche che nasconde l’altezza delle colline. Nel corridoio che conduce alle bocche d’imbarco, tra due lunghe pareti di vetrate, vedo come in uno schermo un ragazzo che spinge il carrello di secchi, stracci e spatole tergivetri. Si ferma. Comincia dalla prima vetrata. La schiuma del sapone di colpo non mi fa vedere più nulla, come un’improvvisa nevicata; poi la spatola di gomma, passata con braccio deciso mi riconsegna, striscia dopo striscia, il panorama. Quando la vetrata è tutta pulita, il ragazzo arrotola sulla punta di un bastone uno straccio bianco e lo passa sulle giunture e sugli angoli non raggiunti dalla spatola. Un servizio perfetto. Poi un’altra vetrata così fino all’imbocco del finger, il “dito”, il corridoio sospeso come un trampolino fino alla porta dell’aereo. Da lì torna indietro e passa alle vetrate dell’altro lato. Ho notato che sono quasi tutti stranieri quelli che occupano i posti più vari dell’aerostazione. E tutto funziona come un orologio “svizzero”.

 

Quel ragazzo, forse dell’area India-Pakistan, ha un modo di fare nobile. Lavora con precisione e serietà come se fosse solo. Quando, a lavoro finito, sta per scomparire gli faccio un cenno di ringraziamento. Lui risponde un mezzo inchino, e nel suo volto scuro si dispiega uno splendente sorriso.

La coltre di nuvole si è alzata e vedo stagliarsi il contorno di una collina. Sui sedili di fronte, si fa sentire una coppia di mezz’età. Non sembrano felici di vivere insieme. Sono isolati ciascuno nel proprio romanzo; chissà se leggono, perché a intervalli c’è qualche scatto di rabbia o parola detta a denti stretti. Sembra che lui guardi troppo le donne. Lei, ben truccata e vestita con gusto raffinato, pur senza seguire dove gira lo sguardo del marito, con gli occhi nel libro bisbiglia qualcosa che sa di avvelenato. Guardo le colline sempre più verdi. Un giovane sacerdote viene a sedersi vicino alla coppia. Clergyman nero e al collo della camicia il caratteristico quadratino bianco.

Sulla giacca risplende una croce di metallo. Qualche posto più in là si siedono due innamorati che si rannicchiano l’uno nell’altra, come per non uscire da un sogno.

Nell’aria condizionata della sala quel sacerdote pieno di vita sembra che venga da un altro pianeta.

 

Il papa a giugno, in occasione dell’anniversario della nascita del santo Curato d’Ars, ha voluto iniziare un anno dedicato al sacerdote a chiusura dell’anno dedicato a san Paolo ed accostare l’umile prete di villaggio al grande apostolo delle genti. Due figure così lontane. Cosa li unifica? Il mistero del sacerdozio.

Il giovane prete mi sembra nobilitato dal suo segreto, direi da un amore, ed ha qualcosa di attraente. Mi torna in mente che, anni fa, avevo trovato sotto il tergicristallo della macchina lasciata al parcheggio una cedola pubblicitaria. C’era scritto a grandi caratteri: «Sei chiamato? Chiama!». Suggerimento ad incentivare il traffico dei telefoni cellulari, ma a me, sempre incantato dalle coincidenze, sembrò l’invito a comunicare ad altri la vocazione ricevuta.

 

Ora quel sacerdote, soltanto con il suo clergyman, il suo non essere distratto o curioso, con la sua essenzialità, è qui a ricordarmi che se ho il dono di una vocazione, non posso non comunicarlo agli altri. La sua presenza mi aiuta a lavare dalla mia mente le tracce delle lucenti vetrine straripanti di saldi convenienti, degli inutili souvenir, di quel senso di frustrazione che ti opprime di fronte a tutto ciò che non puoi avere.

Il consumismo è un binario, invisibile ma forte, che conduce i tuoi stessi pensieri, lasciandoti l’illusione che le redini della vita sono sempre nelle tue mani. Quell’austero clergyman nero ora mi sta invitando a passare all’attacco. Annunciare un’altra possibilità di vita. Quel sacerdote sta facendo quello che ha fatto il lavavetri: togliere ciò che altera la visione della realtà.

Uno dei bambini di una numerosa famiglia, giocando viene a nascondersi vicino a me. Metto il mio zaino in modo tale che il piccolo sia meglio nascosto. La sorellina lo cerca, si avvicina… ma non lo vede. Faccio talmente bene l’indifferente da far ridere il sacerdote che aveva sollevato gli occhi dal suo breviario.

«Dovremmo tornare a giocare come i bambini e la pace sarebbe assicurata», mi dice in francese. E io, approfittando del dialogo, lo ringrazio per il suo clergyman, una predica senza parole. Ci presentiamo, viene a sedersi al posto dello zaino e scambiamo qualche notizia su ciò che facciamo. 

I genitori dei bambini ci guardano mentre seguono il gioco dei figli. La coppia di mezza età è sempre più in guerra.

Quando dico al sacerdote che lui è come il lavavetri, lui scoppia in una risata così sonora che fa uscire dal sogno gli innamorati che ci guardano e sorridono. Poi si fa serio quando dico quale grazia sia incamminarsi su una strada che fa arrivare al punto di dire con san Paolo: «Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me». Dopo un profondo silenzio mi dice: «Se incontri il tuo lavavetri, ringrazialo anche da parte mia».

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